Recentemente, presso la Funzione Pubblica, è stata definita una Intesa sul pubblico impiego, che è stata aspramente criticata dall’ex (mini) ministro Brunetta, nonché non condivisa dalla Corte dei Conti in una relazione trattante lo stesso tema.
Anche se oggi tale avvenimento viene festeggiato da tutti, compresi quelli che si erano dichiarati favorevoli alle tracimazioni legislative del deprecato D.P.R. 150/2009, c’è ancora molto da fare. Mancano, infatti, una soluzione per il precariato, lo sblocco dei rinnovi dei contratti e la questione della previdenza complementare per i pubblici dipendenti, argomento spinoso ancora da affrontare in modo compiuto, perché non basta costituire i fondi, nominare gli organi, fare i siti web e raccogliere le adesioni, per dire che la previdenza complementare é cosa fatta per i dipendenti pubblici, tanto da farli dormire tranquilli.
Ci sono, infatti, alcuni piccoli dettagli cui si cerca di non dare rilevanza, che invece sono di importanza fondamentale.
Le recenti riforme previdenziali ed anche la rilevantissima questione degli esodati hanno chiarito a tutti che, quando si parla di “diritti”, il valore intrinseco relativo a questo termine diventa del tutto opinabile, discutibile e modificabile.
Ora, il sistema di previdenza obbligatoria per i pubblici dipendenti ci sembrava che garantisse una sorta di conservazione dei “diritti” che i lavoratori pensavano di poter esigere una volta giunti al termine della loro attività e, invece, abbiamo constatato che tali diritti sono stati disattesi, allorquando chi aveva maturato nei termini prescritti il diritto di andare in pensione, conservando peraltro il sistema di calcolo retributivo, improvvisamente si é visto posticipare questo diritto di qualche anno.
Quindi, tutto può avvenire su questa materia anche per il futuro, così pure per la previdenza complementare.
Facciamo qualche piccola riflessione e si comprenderà il motivo per il quale noi insistiamo a pretendere che su questa vicenda della previdenza complementare si faccia chiarezza.
Cominciamo dal diritto alle prestazioni.
La normativa vigente basa il sistema di previdenza complementare su due diverse fonti di finanziamento:
· la prima è quella costituita dai soldi prelevati dalle buste paga dei lavoratori e da quelli versati dalla amministrazione di appartenenza, soldi veri che possono essere investiti sul mercato dei fondi complementari;
· la seconda è invece il TFR versato totalmente o parzialmente a seconda dei casi, che è totalmente virtuale, poiché non viene versata al fondo complementare e quindi non investita sul mercato.
Al momento del pensionamento l’iscritto al fondo ha quindi diritto, secondo la normativa vigente, a una prestazione che sarà composta dalla capitalizzazione (montante) delle risorse investite sul mercato (con gli unici soldi veri che sono quelli versati dal lavoratore e dalla amministrazione) e da quella fittizia del TFR che l’ex INPDAP rivalutafigurativamente ad un tasso di rendimento che corrisponde alla media dei rendimenti netti di un “paniere” di Fondi di previdenza presenti sul mercato e, successivamente, al rendimento netto del Fondo, a seguito del consolidamento della sua struttura finanziaria.
Fin qui tutto bene! Sembra un meccanismo ben oliato che non crea preoccupazioni:
io lavoratore do una piccola percentuale del mio salario al Fondo, identica percentuale è a carico dell’amministrazione, il mio TFR invece viene rivalutato, pur senza essere mai stato investito sui mercati, e il tutto va a costituire la mia pensione complementare.
Si può dormire tranquilli!
È bene precisare che la rivalutazione avviene solo nel caso che ci sia un rendimento positivo dei fondi inseriti nel paniere, perché altrimenti verrebbe contabilizzata anche la perdita, ovvio no?
Adesso, anche alla luce di ciò che è accaduto negli ultimi anni, ci sentiamo tutti tranquilli?
Sovente si sente dire che non ci si fida dei fondi complementari, perché si temono tracolli delle borse e perdite del capitale.
Questa preoccupazione è comprensibile e, visti i tempi che corrono, trova ampie motivazioni.
C’è un’altra preoccupazione sul tema, oltre all’andamento delle Borse, ed è un rischio insito nell’intero meccanismo, quello relativo al fatto che la stragrande maggioranza di ciò che costituisce “l’investimento” – il TFR – è virtuale e, quindi, non va sul mercato, per cui alla fine, in caso di auspicabili rendimenti favorevoli, deve essere corrisposta al lavoratore in pensione una rendita reale, il cui onere dovrà inevitabilmente ricadere sul bilancio dello Stato.
Alla faccia di un sistema a capitalizzazione, quale dovrebbe essere quello complementare, con previsione di accumulo di debiti che dovranno essere pagati dalle future generazioni!
Non si ravvede nulla di pericoloso? Non c’è la preoccupazione che un domani possa venir fuori un qualsiasi Ministro dichiarando, in termini spesso sentiti:
“Comprendiamo le aspettative di chi deve andare in pensione, ma non ci sono le risorse per coprire tali spese. Oltretutto trattandosi di un trattamento complementare rispetto alla pensione obbligatoria che pure è garantita, il Governo ha delle priorità dettate dalla emergenza, dalla congiuntura negativa e, quindi, non è nella possibilità di erogare trattamenti che prevedono guadagni che in realtà non ci sono stati, in quanto il sistema è virtuale. Colpa dei passati governi che non hanno provveduto per tempo e che ora non si è nella condizione di regalare soldi che non ci sono“.
Fantascienza? Fantapolitica? Fantaprevidenza?
Basta chiedere agli esodati o a chi è rimasto in mezzo al guado senza lavoro e senza pensione, dalla sera alla mattina.
Su tutto grava anche la questione di un regime giuridico, compresa la fiscalità di “svantaggio“, ancora disciplinato dal decreto del 1993, che colpisce la previdenza complementare per i pubblici dipendenti che non è stata riformata dal decreto del 2005, come per i lavoratori privati.
Lo ripetiamo da anni e abbiamo chiesto, ripetutamente, quasi sempre in splendida solitudine, ai vari Governi diintervenire per rendere equo ed armonico un sistema che, attualmente, crea una profonda e incomprensibile penalizzazione per i pubblici dipendenti,ritenuti a torto privilegiati, in rapporto a quelli del settore privato.
Allora ci sentiamo tutti tranquilli per quanto riguarda il futuro?
Noi ripetiamo che l’Intesa, celebrata in questi giorni dagli onori della cronaca, è molto importante e ci siamo impegnati su tale fronte.
Ma restano problemi irrisolti cui occorre mettere subito mano.
Hanno poco da esultare i cronisti e pennivendoli vari che continuano a praticare lo sport preferito dall’ex (mini) ministro, quello di dileggiare i lavoratori pubblici, senza rendersi conto che questa pratica è passata di moda.
La ricetta del precedente Governo era sbagliata, i pubblici dipendenti non sono organismi “ogm“, cioè sfaticati geneticamente e, quindi, diversi da qualsiasi altro lavoratore.
I guasti, se vi sono, vanno ricercati nell’organizzazione del lavoro, nella legislazione assurda e ridondante, che cerca di piegare l’azione amministrativa ad interessi diversi da quelli della collettività e all’intromissione della politica, che molte volte utilizza la p.a. per fini elettorali o come luogo di parcheggio dove piazzare la propria gente.
Certamente, lavoro da fare per migliorare sempre più le cose ce n’è, sicuramente non con provvedimenti di legge che tendono ad annullare l’unico strumento che stava dando buoni risultati, cioè la prassi contrattuale.
Il blocco dei contratti, palesemente illegittimo e da noi impugnato in sede legale, nonché le storture provocate dal D.P,R. 150/2009, hanno mortificato i lavoratori pubblici e danneggiato un processo di crescita che faticosamente si stava portando avanti da anni.
Non è accettabile che si tenti di porre i lavoratori pubblici in una condizione di subordinazione psicologica, additandoli come il principale male del Paese, imponendo loro regole astruse, palesemente disancorate dalle realtà operative dei luoghi di lavoro, in modo da trovare una sorta di giustificazione per disconoscerne i diritti.
Ora c’è l’Intesa, ma il percorso è ancora lungo e ci sono nodi che devono essere sciolti una volta per tutte.
I dipendenti pubblici hanno ben chiari i loro doveri e se qualcuno non ce l’ha, li deve avere senza se e senza ma, come i diritti, che devono essere tali senza se e senza ma.