La questione riguarda solo la contrattazione collettiva di comparto: analogo problema, difatti, non si pone per il livello integrativo, posto che materie e ambito di operatività devoluti a quest’ultimo sono definiti dal contratto di livello superiore (art. 40, comma 3 bis, T.U.).
Per illustrare le novità recate dalla Riforma Madia, partirei dalle le tre diverse formulazioni della norma di nostro interesse, vale a dire l’art. 2 (comma 2) del decreto legislativo 165 del 2001 (T.U. sul pubblico impiego).
Nella versione primigenia al contratto collettivo era rimesso ampio spazio regolatorio in materia di rapporto di lavoro e relazioni sindacali, salvo che la legge disponesse espressamente in senso contrario; dopo la riforma Brunetta, al contrario, venne introdotto il principio esattamente opposto: il contratto collettivo poteva derogare alle disposizioni di rango normativo solo qualora ciò fosse espressamente previsto dalla legge.
La riforma Madia, ultima in ordine di tempo, adottata con il decreto legislativo 75/2017, ha stabilito che la contrattazione collettiva (nelle materie affidategli dalla legge) abbia efficacia derogatoria nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto (T.U. 165/2001), da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e (che), per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili.
In merito alla presunta forza derogatoria del contratto collettivo, è di tutta evidenza che tale espressione viene utilizzata in senso a-tecnico, in quanto per il principio della gerarchia delle fonti il contratto non potrebbe mai andare contro la legge: in realtà, più correttamente, dovrebbe parlarsi di “non applicazione” della fonte normativa per effetto dell’entrata in vigore dell’intesa collettiva (conditio legis).
Per quanto concerne specificamente le materie devolute alla contrattazione collettiva, spetta a quest’ultima (art. 40 T.U.) la disciplina del rapporto di lavoro (sia negli aspetti giuridici che economici), nonché quella delle relazioni sindacali, secondo le modalità (e con le eccezioni) previste dal TU.
Trattasi, con le precisazioni che seguiranno, di una formulazione apparentemente più ampia rispetto a quella prevista dalla riforma Brunetta (decreto leg.vo 150/09), la quale – ferme restando le competenze in materia di relazioni sindacali – limitava l’intervento della contrattazione ai “…diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro…”.
Continua, invece, a restare escluso l’intervento dell’autonomia collettiva nell’organizzazione degli uffici, in tutte le materie che sono oggetto di partecipazione sindacale (previste e disciplinate dalla stessa contrattazione ex art. 9 T.U.), le prerogative dirigenziali (in particolare gli atti di micro organizzazione e gestione giuridico-economica delle risorse umane, salvi diritti di informazione o partecipazione), conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali, le altre materie previste dall’art 2, comma 1 lett. c) della legge 421/92 (responsabilità ed incompatibilità, principi in materia di organizzazione, libertà di insegnamento e ricerca, selezione del personale, dotazioni organiche).
In realtà, tali prescrizioni si configurano come diretta applicazione di riserve di legge costituzionalmente previste, quali l’organizzazione dei pubblici uffici, cui si possono ricollegare le prerogative dirigenziali (art.97 Cost.), i principi selettivi nell’accesso al pubblico impiego (sempre art.97 Cost.), le incompatibilità espressione del servizio esclusivo alla nazione (art.98 Cost.), la libertà (anche di insegnamento) per arte e scienza (art.33 Cost.).
Invece la contrattazione collettiva è ammessa solo entro gli spazi e limiti consentiti dalla legge su sanzioni disciplinari, valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, mobilità.
Nel rinviare alle specifiche disposizioni normative, ci limitiamo a rammentare – a titolo esemplificativo – che la contrattazione collettiva nazionale può recare disposizioni integrative in materia di procedure e criteri per l’attuazione della mobilità e nel caso di eccedenze di personale (artt. 30 e 34 TU), così come può prevedere procedure di conciliazione non obbligatoria in materia di sanzioni disciplinari diverse dal licenziamento (ma non procedure di impugnazione, art. 55 bis TU), nonché il potere di individuare condotte e sanzioni concernenti assenze a ridosso di festività e riposi settimanali, che si riflettano negativamente sui servizi all’utenza (art. 55 quinquies, comma 3 bis T.U.).
La contrattazione collettiva, è vero, continua a prevedere e regolare fattispecie disciplinari e relative procedure, ma nel fare questo non può ovviamente discostarsi (neppure in senso migliorativo) rispetto al dettato (imperativo ed inderogabile) delle norme di legge (in primis artt. 55 e seguenti del T.U.).
Nel caso delle progressioni economiche debbono essere in ogni caso salvaguardati i principi della meritocrazia, selettività e significativa differenziazione dei trattamenti economici accessori, definendo la quota di risorse destinate alla performance organizzativa ed individuale (art.19, D. Lgs. 150/2009), nonché l’ammontare del bonus annuale delle eccellenze (art.21 D. Lgs. 150/09).
Rimane fermo che nelle materie ed oggetti la cui regolazione è preclusa al contratto collettivo, eventuali clausole difformi dalla legge saranno affette da nullità (assoluta o limitata alle singole disposizioni), atteso il carattere imperativo ed inderogabile delle prescrizioni normative.
Ricordiamo che la Corte costituzionale con sentenza n.106 del 1962 ha esplicitamente affermato che l’art. 39 Cost. non reca nessuna riserva per la fonte collettiva nella regolazione del rapporto di lavoro (anche privato), che può pertanto essere legittimamente disciplinato da norme di legge (o regolamento).
Il principio veniva rafforzato – nella logica della successione delle fonti nel tempo – dalla previsione che disposizioni normative (di rango legislativo e non) dettate in materia di impiego pubblico possano essere derogate dal contratto collettivo solo in caso di previsione espressa da parte loro (art. 2, comma 2, TU, come modificato dalla riforma Brunetta), in questo differenziandosi nettamente rispetto al pregresso, quando – pur con le eccezioni normativamente previste dal T.U. – vigeva la regola opposta.
La lunga storia dei rapporti tra legge e contratto nella regolazione del rapporto di pubblico impiego ha registrato un nuovo capitolo col varo del decreto legislativo n. 75 del 2017 (cd. riforma Madia), la quale – come anticipato – prevede da un lato la possibilità per il contratto di derogare alla legge (o altra fonte autoritativa) e dall’altro cancella la norma circa la derogabilità (che era) ammessa solo in caso di espressa previsione normativa.
Il quadro che ne discende va nella direzione di una rivalutazione della fonte contrattuale che potrà, pertanto, derogare alla legge (o fonte autoritativa), anche ove questa non gliene dia espressa facoltà.
Questo, però, non significa che il contratto riprenda pienamente vigore e possa derogare in toto alla legge: anzitutto tale potere derogatorio è riconosciuto solo ai contratti o accordi nazionali (escludendo quelli integrativi), in secondo luogo la deroga è ammessa solo nel rispetto dei principi del TU e nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 40, comma 1, dello stesso T.U.
Ne discende che il contratto continua a non poter intervenire negli spazi e materie riservate alla legge (o altra fonte pubblicistica).
La Cassazione, con la sentenza n. 16837 del 24.06.2019, ha affermato che i sindacati possono trattare con i dirigenti degli Enti di riferimento, sulle scelte inerenti la micro-organizzazione degli uffici pubblici, solo a seguito dell’entrata in vigore della c.d. riforma Madia, mentre in precedenza tale facoltà era loro preclusa.
E’ appena il caso di notare che un’ulteriore e non secondaria limitazione per gli spazi di azione del contratto collettivo del settore pubblico derivano dalla generale eccezione contemplata dall’art. 2, comma 2, del TU (I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto); nell’ambito delle eccezioni previste in ordine all’applicazione al pubblico impiego contrattualizzato delle norme di diritto comune; tale limitazione vale, come ovvio, anche per la fonte contrattuale (si pensi, ad esempio, alla disciplina delle mansioni superiori, art. 52 T.U.).
di Paolo Arigotti