«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire!»
Con queste parole l’allora leader partigiano Sandro Pertini proclamava alla radio lo sciopero generale. Siamo a Milano, il 25 aprile del 1945. L’Italia, lo ricordiamo, era stata spaccata in due dall’occupazione del centro nord da parte delle forze tedesche, a seguito della firma dell’armistizio del’8 settembre 1943: in quel territorio era stata creata la Repubblica sociale italiana, formalmente guidata da Mussolini, in pratica uno stato fantoccio controllato da Berlino. Il sud, pressappoco da Napoli in giù, era formalmente sotto il controllo di Casa Savoia, protetto dalle truppe alleate. A lanciare il proclama era stato il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia (CLNAI), che coordinava il movimento resistenziale dal capoluogo lombardo. L’organismo collegiale era composto, oltre che da Pertini, da Rodolfo Morandi (presidente), Alfredo Pizzoni, Luigi Longo, Emilio Sereni e Leo Valiani. In sostanza, veniva ordinata l’insurrezione generale e l’assunzione dei pieni poteri da parte dei CNL nazionale e regionali: i nuclei partigiani, organizzati nei Corpi Volontari della Libertà, dovevano attaccare gli ultimi presidi militari italo-tedeschi e costringerli alla resa. Nella stessa riunione che approvò all’unanimità la decisione, venne stabilita la condanna a morte dei principali gerarchi fascisti: lo stesso Benito Mussolini sarebbe stato fucilato tre giorni dopo («I membri del governo fascista ed i gerarchi del fascismo colpevoli di aver soppresso le garanzie costituzionali e di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del Paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e nei casi meno gravi con l’ergastolo». Tutti gli altri reati saranno puniti in base al Codice penale del 1889, rispettivamente secondo le leggi militari di guerra vigenti l’8 settembre 1943. Con l’occasione furono istituiti gli organi di giustizia straordinari). All’ordine fece seguito la liberazione, ad opera delle forze partigiane, delle principali città del centro nord ancora controllate dai nazifascisti: Bologna e Genova erano già state liberate (rispettivamente il 21 e 23 aprile), Parma lo stesso 25 aprile, mentre Venezia dovette aspettare il 28. Il primo maggio tutta l’Italia era finalmente libera. La cosiddetta resa di Caserta firmata il 29 aprile 1945 tra occupanti e governo italiano segnava formalmente la fine della guerra (e del fascismo) in Italia, con decorrenza 3 maggio 1945. La prima celebrazione del 25 Aprile fu decisa l’anno successivo, con decreto dell’allora Luogotenente generale del Regno Principe Umberto di Savoia (divenuto Re il successivo 9 maggio per poco meno di un mese, prima del referendum istituzionale del 2 giugno che decretò la fine dell’istituzione monarchica). La proposta per la celebrazione proveniva da Alcide De Gasperi, nella veste di Presidente del Consiglio dei ministri. La definitiva istituzionalizzazione come festività nazionale avvenne con la legge n. 260 del 27 maggio 1949 (recante “Disposizioni in materia di ricorrenze festive”). Le celebrazioni per il 25 aprile interessano tutto il Paese, per quanto non siano mancate occasioni di polemica, legate ad un presunto “impossessamento” della ricorrenza ad opera di determinate forze politiche. Usualmente il Presidente della Repubblica si reca, assieme alle più alte cariche dello Stato, al monumento dedicato al Milite Ignoto, per deporre una corona d’alloro in ricordo dei caduti e dei dispersi italiani in tutte le guerre.
di Paolo Arigotti