Il sud Italia non sta attraversando una fase felice, ma non tutte le colpe sono della pandemia, che al più ha solo peggiorato un quadro già molto critico. La questione è di stretta attualità, pure in riferimento al varo del cosiddetto Recovery fund, che rischia di allargare ulteriormente la forbice tra nord e sud del Paese. Per parlare del pregresso, tra il 2015 e il 2018 l’Italia ha registrato una crescita dimezzata rispetto alla media europea (4,6 contro il 9,3 per cento), sia per la domanda, che per consumi e investimenti. Il PIL italiano non ha recuperato dopo la crisi economica del 2008-9, con un valore di quattro punti inferiore rispetto al 2008, misurato agli inizi della pandemia (primi mesi 2020).
Se guardiamo al dato aggregato per territorio, la tendenza del Mezzogiorno è ancora peggiore: tra il 2008 ed il 2011 il PIL ha registrato una flessione più che doppia rispetto al settentrione (7,1 contro 3 per cento), con dati altrettanto negativi sul fronte dei consumi e degli investimenti, tanto pubblici quanto familiari (anche in tal caso la forbice nord-sud è a sfavore di quest’ultima parte del Paese). L’attività industriale nel Mezzogiorno non è del tutto assente, tanto è vero che nel triennio 2015-8 si è registrata una ripresa degli investimenti privati, tuttavia insufficiente per il rilancio economico.
Gli aiuti di stato erogati dal governo nazionale, nel rispetto dei “paletti” della UE, si sono assestati sullo 0,3 per cento del PIL, in linea con Grecia e Spagna, nettamente inferiori rispetto a quelli erogati in Germania (1,4) o in Francia (0,8). La ripresa industriale al sud, dopo la recessione mondiale iniziata nel 2008, non c’è praticamente mai stata, ed i timidi segnali registrati prima della pandemia non sono bastati neanche a tamponare i danni della crisi precedente.
Qualche dato positivo si può ravvisare nel settore terziario (il turismo in particolare, oggi bloccato dal Covid) dove l’aumento è stato del 30 per cento, rispetto al 14 del nord. Il dato, però, fotografa a ben vedere l’assenza di un solido apparato industriale nel meridione, ragion per cui si è puntato maggiormente sui servizi. Non va meglio per l’agricoltura, con un calo produttivo del 7 per cento rispetto al 2008 (dato 2019). Il gap di produttività nelle attività primarie rispetto al nord è di tutta evidenza (25mila euro per addetto contro il 53 del centro nord), a fronte di una percentuale di occupati più che doppia rispetto al settentrione (7,6 contro 2 per cento).
Scarsa l’incidenza del mezzogiorno anche nel valore prodotto dall’industria alimentare di trasformazione, dove il sud contribuisce per circa un quinto della produzione nazionale, appena per il 16,5 per cento sull’export totale. Tutto questo si riflette sul PIL pro-capite, che nel mezzogiorno non supera il 55 per cento del settentrione (prima della crisi era del 57); un’ulteriore contrazione dell’occupazione nel 2020, con un calo del 2 per cento rispetto all’anno prima (tasso di disoccupazione salito al 16,6, con un giovane su due ed una donna su cinque senza lavoro). Non va meglio per la ricchezza netta prodotta dalle famiglie del nord rispetto a quelle del sud (195mila euro contro 98mila nel 2018), mentre sono molto differenti le scelte per gli investimenti: al sud prevale il mattone, al nord l’investimento industriale e finanziario. In sintesi, la pandemia ha solo acutizzato un divario storico, ancora adesso in parte calmierato grazie al blocco dei licenziamenti ed agli ammortizzatori sociali, che non hanno impedito la perdita di ben 820mila posti di lavoro nel 2020 per effetto delle mancate assunzioni (spicca il dato degli stagionali e la flessione dell’occupazione femminile).
Ulteriori fattori di diseguaglianza sono la più bassa scolarizzazione della popolazione meridionale (78 contro 84) e il maggior tasso di dispersione scolastica (17 contro 12). L’unico ambito in cui nord e sud sembrano andare nella stessa direzione è la tendenza demografica, in costante flessione dagli ultimi decenni del secolo scorso, che vede però il centro nord messo meglio grazie ai flussi migratori (basti dire che dal 2000, la popolazione autoctona al settentrione è calata di 15mila unità, al centro sud di 777mila!). Province e comuni importanti come Napoli, Caserta o Agrigento registrano un consistente calo di residenti, solo in parte compensati dall’immigrazione (più o meno ufficiale).
All’origine dello spopolamento (e della scarsa attrattiva verso i migranti) la penuria di lavoro e servizi e le difficoltà nei collegamenti. Preso atto della situazione a dir poco drammatica, la pandemia rischia di riportare il Paese ad una situazione simile al 1861, incrementando fenomeni di spopolamento e fuga verso migliori opportunità di vita e lavoro – desertificando ulteriormente il meridione – specialmente se non si adotteranno decisioni politiche che contrastino la frammentazione del sistema produttivo e incentivino formazione e ricerca. Uno degli ulteriori rischi è che, ancora una volta, siano l’economia sommersa e la criminalità ad approfittare del grave disagio per sostituirsi allo Stato, presentandosi come unica ancora di salvezza per i tanti cittadini (giustamente) disperati.
di Paolo Arigotti