Tra le affermazioni più inflazionate sull’arrivo al potere del nazismo troviamo quella che il partito avrebbe vinto le elezioni e quindi conquistato legalmente la guida del paese. Questo è vero solo in parte, senza che ci sia (spero) bisogno di sottolineare che la vittoria elettorale non giustifica l’instaurazione della dittatura e la repressione violenta di ogni forma di dissenso. Adolf Hitler fu nominato cancelliere della Germania (vale a dire capo del governo) il 30 gennaio 1933, ma per comprendere come ci si sia arrivati occorre fare un salto indietro di oltre dieci anni.
La fine della Grande guerra segnò per l’impero tedesco una cocente disfatta. La propaganda nazionalista e militarista avrebbe presentato la sconfitta come il frutto di un tradimento interno (la cosiddetta pugnalata alla schiena), una sorta di congiura di elementi ebraici e bolscevichi (non dimentichiamo che era appena nata la Russia dei soviet), che avrebbe determinato una sconfitta ingiusta e rovinosa. Si trattava di una farneticazione, la crisi interna e militare dello stato tedesco, fatta di diseguaglianze sociali, sistema di governo vetusto e inadeguato, durissimi sacrifici imposti ai lavoratori, errori strategici nella conduzione della guerra, era latente da tempo e pesanti responsabilità gravavano sulle spalle della dirigenza politica e militare, la quale pensò bene di “scaricarle” su qualcun altro, ricorrendo alla sempreverde teoria del complotto, per non assumersi il peso di mancanze ed errori.
La costruzione così proposta, ad ogni modo, ebbe molta fortuna e si radicò nel sentire comune e in larghe fette della popolazione, acutizzata da una martellante propaganda; soprattutto quella di matrice nazionalista si sarebbe scagliata contro le durissime (e probabilmente ingiuste) condizioni di pace imposte alla Germania dai trattati di pace di Versailles del 1919, che in sostanza indicavano la nazione come l’unica responsabile del conflitto. Si trattava di questioni sulle quali i nazisti faranno a loro volta leva per alimentare crisi e malumori, promettendo di restituire alla Germania dignità di grande potenza, ingiustamente umiliata dalla comunità internazionale.
Le clausole di Versailles erano effettivamente molto pesanti e contemplavano la perdita di tutte le colonie, l’occupazione di parti del territorio, una sostanziale smilitarizzazione (veniva fatto divieto della coscrizione obbligatoria e la consistenza delle forze armate doveva essere contenuta nei limiti previsti dai trattati), ma soprattutto imponevano il pagamento di pesantissime riparazioni di guerra, che di fatto condannavano il paese a una durissima crisi economica e forti restrizioni, sfociate in fame e disoccupazione.
La fine della guerra coincise con il crollo della monarchia. Il sovrano abdicò e abbandonò il paese, che fu attraversato da un clima di autentica guerra civile: un vero e proprio scontro armato fu scatenato dal tentativo (fallimentare) di instaurare nel paese una repubblica sul modello russo promosso dai comunisti della lega spartachista, contrapposti alle destre conservatrici e al partito socialdemocratico (moderato). L’SPD aveva assunto il governo, colmando il vuoto di potere creato dalla fuga del Kaiser, dando vita a un governo provvisorio con il sostegno delle forze conservatrici, che volevano in tal modo “scaricare” sulla sinistra la responsabilità della gestione della sconfitta. L’obiettivo ufficiale era dare vita ad un nuovo stato democratico e repubblicano, poi chiamato repubblica di Weimar dal nome della cittadina dove fu approvata la nuova costituzione. Gli spartachisti furono sconfitti dall’alleanza tra destre e socialdemocratici: i capi della rivolta vennero uccisi e il tentativo rivoluzionario represso nel sangue.
Nel fare questo il governo si era avvalso di gruppi paramilitari di reduci di guerra, chiamati Freikorps, di chiara ispirazione nazionalista, che più tardi sarebbero confluiti nelle formazioni paramilitari naziste (soprattutto nelle SA). La fine del tentativo insurrezionale risolse un problema, ma ne lasciava aperti molti altri, a cominciare da uno straordinario fattore di debolezza del nuovo assetto repubblicano, che più tardi avrebbe spalancato le porte ai nazisti. Infatti, il nuovo regime democratico era inviso a tanti: le forze nazionaliste e militariste continuarono a parlare di una sconfitta tedesca dovuta ad un complotto interno e vedevano la repubblica come una sorta di ostaggio delle forze sovversive; per ragioni opposte, quelle rivoluzionarie di sinistra volevano abbatterla per creare un regime bolscevico. A questi elementi di instabilità aggiungiamo la gravissima depressione economica e sociale che attanagliava il paese: le durissime condizioni imposte a Versailles provocarono una crisi diffusa, dando linfa agli estremismi nemici del nuovo stato.
Da un punto di vista squisitamente politico, la neo repubblica era molto fragile. Il regime costituzionale era una sorta di via di mezzo tra presidenzialismo (con un capo dello stato era eletto dal popolo) e parlamentarismo (il governo doveva avere la fiducia del parlamento), che alla lunga dimostrerà tutta la sua inadeguatezza; ulteriore fragilità era la grande frammentazione politica, che per via della legge elettorale di tipo proporzionale non permetteva la formazione di maggioranze stabili.
L’assenza di governi forti e autorevoli acutizzò il problema delle onerose riparazioni di guerra cui non si sapeva fare fronte, che bloccarono a lungo ogni tentativo di ripresa. Le nazioni più integraliste con il nemico sconfitto furono Francia e Belgio, che pretendevano il pagamento puntuale dei debiti. Il governo di Berlino, non volendo tagliare le spese per timore di accrescere i disagi della popolazione, pensò di risolvere il problema della liquidità stampando carta moneta, aumentando così la massa circolante. Questa scelta improvvida scatenò però una terribile spirale inflazionistica, che non fece che impoverire ulteriormente le grandi masse. Il marco perse praticamente ogni valore reale e la Germania non fu più in grado di onorare le riparazioni di guerra. La reazione di Francia e Belgio fu l’occupazione della Ruhr (1923), regione di confine franco tedesca, all’epoca ricca di industrie e miniere strategiche, con l’obiettivo di incamerare le risorse per la riscossione delle riparazioni di guerra.
L’occupazione di una parte del proprio territorio esasperò l’opinione pubblica tedesca, scatenando l’ostilità delle forze nazionaliste contro l’atto di forza straniero e dando vita a forme di resistenza passiva da parte della popolazione. Tra le forze nazionaliste ed estremiste che contrastavano la fallimentare azione di governo figurava un piccolo partito nato in Baviera, il cui leader indiscusso era un ex caporale di origine austriaca, Adolf Hitler. Era stato fondato nel 1919 col nome di partito dei lavoratori tedeschi. Hitler vi era entrato quasi per caso, facendosi subito notare come oratore nei comizi organizzati nelle birrerie bavaresi, divenendone in breve tempo il leader assoluto. Convinto nazionalista e antisemita, nel 1920 lo ribattezzò partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (NSDAP), delineando un programma politico di chiara ispirazione nazionalista, antidemocratica, antisemita, antibolscevica e vagamente socialisteggiante (in realtà tali ultimi aspetti del programma saranno progressivamente accantonati). Si trattava, per la verità, di uno dei tanti micropartiti presenti nel panorama politico tedesco, privo di qualunque peso significativo sino alla fine degli anni Venti.
L’unico intervento politico di rilievo sarebbe stato il fallimentare colpo di stato in Baviera (il putsch della birreria di Monaco), organizzato nel 1923, che si risolse in una disfatta totale: Hitler fu incarcerato e il partito venne sciolto e dichiarato fuori legge. L’iniziativa, benché fallimentare, avrebbe regalato una certa visibilità al futuro Fuhrer, che si vedrà abbuonata dai giudici gran parte della pena: approfitterà della prigionia per scrivere il suo libro Mein Kampf (la mia battaglia), una sorta di manifesto politico del nazismo. Nel frattempo, grazie alla mediazione americana, inglese e italiana, furono stipulati a Locarno dei nuovi accordi internazionali che da un lato contemplavano appositi piani di ripresa (il cosiddetto Piano Dawes), con generosi finanziamenti statunitensi e la concessione di dilazioni per le riparazioni di guerra, e dall’altro ponevano fine all’occupazione della Ruhr, restituendo alla Germania ruolo e dignità internazionali (tra l’altro fu deciso il suo ingresso nella Società delle Nazioni). Grazie al complesso di queste misure, la Germania avviava una fase di ripresa, e il paese poté lentamente risollevarsi.
Questa fase di rinnovato sviluppo sarebbe stata guidata dal politico conservatore Gustav Stresemann. L’economia crebbe nuovamente, la disoccupazione e l’inflazione degli anni precedenti furono in buona parte riassorbite, mentre una riforma del marco (garantendo il valore della moneta con le industrie e proprietà terriere) restituì alla valuta il peso perduto. Sembrava tutto andare per il meglio, ma la crisi del 1929 rimescolò nuovamente le carte. Il crollo di Wall Street mise fine di botto all’indispensabile flusso di aiuti americani, il che precipitò il paese in una nuova e più grave crisi economica, che i governi di Weimar non seppero fronteggiare. Una forte disoccupazione e una nuova devastante ondata inflazionistica investirono il paese, annullando i progressi degli anni precedenti. Tutti i partiti rivoluzionari di destra e di sinistra risollevarono la testa, guadagnando nuovi consensi nella popolazione esasperata. Questo scenario, però, non deve far credere che fosse solo la crisi a favorire i partiti estremisti.
Non dimentichiamo che la repubblica di Weimar non era mai stata accettata dalle componenti estremiste (nazionaliste e comuniste), che non chiedevano di meglio che vederla crollare e che appoggiavano pertanto le forze politiche antisistema. La storia non si fa con “i se e con i ma”, resta però il dubbio legittimo se in mancanza della crisi mondiale sarebbero mai saliti al potere i nazisti: non possiamo escluderlo, ma nemmeno dare per scontato la reciproca. Un elemento di fatto è rappresentato dai dati elettorali. Nelle consultazioni del 1928 il partito nazista aveva racimolato solo una percentuale insignificante di voti, tenuto conto che si trattava di una forza politica il cui ambito di azione era limitato praticamente alla sola Baviera.
Già due anni dopo, nelle elezioni del 1930, la NSDAP faceva un autentico exploit, conquistando circa il 18 per cento dei voti e divenendo il terzo partito del paese. Hitler aveva appreso bene la lezione del fallito putsch di Monaco e ora proclamava di voler arrivare al potere legalmente. Il sistema di Weimar era in crisi, non sapendo reagire alla nuova crisi, e l’instabilità politica caratterizzò questa nuova fase: si alternarono una serie infinita di governi, guidati da esponenti minori (Stresemann era morto nel 1929) e in pratica si passò da un’elezione all’altra. Gli esecutivi erano molto deboli e senza una maggioranza di riferimento si tenevano in piedi solo in virtù dei poteri straordinari che la costituzione riconosceva al presidente del Reich, il maresciallo Paul Von Hindenburg. Quest’ultimo era un anziano aristocratico e già comandante militare durante la Grande Guerra, probabilmente tra i responsabili della sconfitta; paradossalmente lui che era il capo di uno stato repubblicano non celava le sue simpatie filomonarchiche. Le continue elezioni politiche videro la crescita inarrestabile della NSDPAP, che nel 1932 divenne il primo partito.
Il movimento di Hitler, dichiaratamente nazionalista e antisemita, prometteva la rinascita nazionale, la cancellazione degli odiati trattati di pace e di restituire al paese la grandezza perduta. Lo sbandierato antisemitismo individuava nel complotto della finanza ebraica un utile capro espiatorio per il malessere generale. La sapiente azione di propaganda intercettò indubbiamente il voto di protesta delle masse, ma spiegare solo con questo una crescita tanto repentina non sarebbe corretto.
Se andassimo a leggere il programma del partito del 1920 troveremmo scritti tutti i punti presentati agli elettori negli anni Trenta, eppure prima di questo momento – nonostante la crisi vissuta nel decennio precedente – la NSDAP non aveva mai registrato questi successi, al contrario fino a poco tempo prima era stata una forza politica praticamente insignificante. Per questa ragione, senza negare che ci furono coloro che per disperazione si gettarono tra le braccia dei nazisti (e dei comunisti, i cui voti crescevano ugualmente), questo elemento da solo non basta a spiegare il successo repentino del movimento di Hitler. Abbiamo sottolineato come lo stato repubblicano e democratico era malvisto, tra gli altri, da una serie di importanti centri di potere tradizionali: gli industriali (quali Krupp, Bosch, Vogler, e tanti altri), i finanzieri, i grandi proprietari, i circoli militari (cui apparteneva lo stesso Hindenburg) non chiedevano di meglio che sbarazzarsene, togliendo di mezzo allo stesso tempo tutte le organizzazioni dei lavoratori avvertite come un ostacolo o un fastidio per le proprie posizioni di potere. L’anti bolscevismo del movimento nazista era una importante garanzia in questo senso, soprattutto nel timore che la crisi potesse scatenare nuove rivolte sul modello spartachista (la crescita dei comunisti allertò ulteriormente chi nutriva questi timori).
Tali dinamiche possono spiegare il sostegno (anche economico) sempre più forte dato da queste forze al movimento di Hitler, determinante nel favorirne l’ascesa. Alla luce di ciò, si può ragionevolmente ritenere che molti tra i personaggi importanti che sostennero Hitler non lo fecero tanto per convinzione, quanto con l’idea di poter strumentalizzare il movimento per i propri scopi, salvo poi toglierlo di mezzo una volta data la spallata finale al regime di Weimar. Si sarebbe rivelato un clamoroso errore di valutazione, ma resta il fatto che nell’immediato questo orientamento regalò ad Hitler appoggi fondamentali, senza i quali difficilmente sarebbe stato nominato cancelliere. Nonostante il Fuhrer fosse il leader del maggior partito, Hindenburg (al quale spettava la scelta del capo del governo) disprezzava il “piccolo caporale boemo” e furono solo le pressioni di quei circoli a indurlo a nominarlo cancelliere il 30 gennaio 1933.
Tra gli uomini che appoggiarono la nomina di Hitler troviamo Franz Von Papen, esponente della classe conservatrice e molto vicino ad Hindenburg: uno dei tanti, lui che fu vice di Hitler nel primo governo guidato dai nazisti, a illudersi di usare il movimento per i suoi fini di potere. Il primo governo Hitler era un gabinetto di coalizione: a parte il Fuhrer, ne facevano parte solo due nazisti Herman Goering come ministro della Prussia (il più grande lander tedesco) e Wilhelm Frick in veste di ministro dell’Interno. Ma Hitler non voleva certo essere per molto tempo il capo di un esecutivo di coalizione. Non era ancora trascorso un mese dalla sua nomina, che il 28 febbraio fu dato alle fiamme l’edificio del Reichstag, il parlamento federale. Si discute ancora oggi se l’incendio fosse stato appiccato dagli stessi nazisti, quel che è certo è che Hitler ne approfittò immediatamente. Presentò prontamente al capo dello stato uno schema di decreto, che – paventando un tentativo insurrezionale dei comunisti- in pratica conferiva al governo (di fatto allo stesso Hitler) i pieni poteri. Il ricorso al decreto sull’incendio del Reichstag e alla successiva alla legge sui pieni poteri rappresentarono lo strumento giuridico per l’instaurazione della dittatura. Le misure varate (arresti senza mandato, sospensione dei diritti e libertà fondamentali) scatenarono la caccia al nemico politico, a cominciare dagli esponenti della sinistra marxista.
Il 5 marzo si tennero nuove elezioni generali, le ultime formalmente libere, in realtà caratterizzate da violenze ed arresti arbitrari, che diedero ai nazisti e ai loro alleati nazionalisti la maggioranza dei seggi. Il primo atto del nuovo parlamento fu l’approvazione della cosiddetta legge delega, che demandava all’esecutivo il potere legislativo, compreso quello di emendare la costituzione. Esautorato così il parlamento, nello spazio di pochi mesi si succedettero una serie di misure straordinarie che cancellarono ogni residua libertà politica e personale.
Si misero progressivamente fuori legge partiti e associazioni non naziste (il 14 luglio la NSDAP fu dichiarata partito unico, mentre la costituzione di altri partiti diventava reato), radio e giornali vennero chiusi o sottoposti ad una rigida censura governativa (controllata dal ministro Goebbels), sindacati ed organizzazioni furono soppresse o inglobate nelle organizzazioni di partito (nacque il fronte tedesco del lavoro come sindacato unico di stato), le formazioni paramilitari e la polizia politica si occupavano degli oppositori e nascevano i primi campi di concentramento. Venne ripristinata la pena di morte per una serie di reati (alto tradimento, sommosse, sabotaggio, etc), mentre l’assetto federale contemplato dalla costituzione di Weimar venne praticamente svuotato, conferendo al governo il potere di intervenire negli affari regionali quando lo richiedessero esigenze di ordine e sicurezza pubblica; un funzionario nominato dal governo (Reichstattaler) aveva il compito di scegliere o revocare i governi locali. Gli organi di giustizia dei lander furono soppressi e create a livello statale apposite corti (poi chiamate tribunali del popolo) per giudicare i reati politici.
All’interno dell’amministrazione pubblica si assistette ad una generale epurazione di tutti gli elementi politicamente non allineati, e si cominciò ad allontanare magistrati ed avvocati di origine ebraica. Nei rapporti con le due maggiori confessioni religiose del paese, la luterana e la cattolica, fu adottata una doppia strategia: collaborazione e ricerca dell’intesa con la corrente maggioritaria delle chiese (a luglio 1933 il Vaticano sottoscrisse con Hitler un concordato, a firmarlo il futuro Pio XII Eugenio Pacelli), mentre per le componenti più renitenti si fece ricorso alle maniere forti (come avvenne con la Chiesa confessante tedesca). A livello economico furono create una camera nazionale e territoriali, una sorta di luogo di incontro delle istanze, alle quali presero parti i rappresentanti di quei grandi gruppi economici che avevano sostenuto l’ascesa dei nazisti, che come promesso li avevano liberati dalla scomoda presenza dei sindacati e dalla preoccupazione dei diritti dei lavoratori. L’unica carica importante che restava appannaggio di un non nazista era quella di capo dello stato, ma Hitler aveva un piano anche per questo.
La questione era particolarmente importante, visto che il presidente del Reich era di diritto il supremo comandante delle forze armate. Hindenburg era molto anziano (84 anni) e Hitler mirava chiaramente a prenderne il posto. Prima, però, doveva ottenere l’appoggio decisivo delle forze armate, che subordinavano il loro consenso all’ascesa di Hitler alla presidenza all’eliminazione delle SA, formazioni paramilitari rivoluzionare del partito, guidate da Ernest Rohm, vecchio amico di Hitler. Il progetto di Rohm era di sostituire l’esercito con le sue SA, con lui stesso quale comandante supremo: evidentemente si trattava di un’idea che non piaceva affatto ai capi delle forze armate. Hitler accettò di toglierlo di mezzo (lo farà in occasione della notte dei lunghi coltelli, il 30 giugno 1934) ed in cambio, quando il 2 agosto 1934 Hindenbug morì, ottenne di riunire nella sua persona la carica di capo dello stato e cancelliere, col titolo ufficiale di Fuhrer und ReichsKanzler.
Di fatto il nazismo era così divenuto l’incarnazione dello stato e la bandiera con la croce uncinata, simbolo del partito, divenne emblema della Germania. Le misure antisemite aspetteranno. Le leggi di Norimberga saranno approvate solo nel 1935: i nazisti erano consapevoli che i tedeschi non fossero per la maggioranza antisemiti, per cui era meglio procedere con gradualità. Nel frattempo, il governo avviò colossali programmi di opere pubbliche e per la riconversione di molte attività industriali verso la produzione siderurgica e bellica (regalando enormi profitti ai generosi finanziatori del nazismo), che consentirono il riassorbimento di molti disoccupati e diedero una grande credito (e consenso) al nuovo regime. Ma questa è un’altra storia.
di Paolo Arigotti