Il presidente russo Vladimir Vladimirovič Putin, ex militare ed ex funzionario del KGB russo (e pare della Stasi), attuale capo di stato della Federazione Russa (scadrà nel 2024), al suo quarto mandato (non consecutivo), avendo ricoperto la carica presidenziale dal 1999 al 2008, mentre dal 1999 al 2000 (sotto la presidenza Eltsin) e successivamente dal 2008 al 2012 (presidente Dimitrj Medvedev) è stato primo ministro, nel rispetto del tetto dei due mandati consecutivi previsti dalla Costituzione russa. Concentreremo la nostra attenzione sugli assetti politici interni e soprattutto sul livello di democraticità del sistema politico russo, tralasciando gli scenari internazionali. Partiamo dalla valutazione della Russia operata da talune organizzazioni internazionali. Gli indici di percezione della corruzione politica pubblicati da Transparency International, sul Democracy Index dell’Economist Intelligence Unit e sull’indice “Freedom in the World” di Freedom House stimano un punteggio di 20 su 100 (2017), con valori che si attestano su quelli dell’epoca sovietica. Altre organizzazioni e attivisti per i diritti umani (tra le quali Amnesty international) parlano di persecuzioni contro gli oppositori politici, accompagnate da incarcerazioni e/o uccisioni arbitrarie, unitamente a gravi limitazioni per le libertà di espressione e di stampa, senza contare le accuse di brogli elettorali. La Russia, come noto, è lo stato più grande del mondo per estensione geografica (oltre 17 milioni di kmq), ma non per numero di abitanti (144 milioni circa), che si concentrano per i tre quarti nelle regioni europee, mentre una parte considerevole del suolo nazionale, la Siberia, è quasi disabitata per via del clima ostile. L’introduzione di un regime liberaldemocratico, sul modello occidentale, potrebbe scatenare – ad avviso di molti osservatori – una serie di dispute territoriali all’interno di questo immenso spazio geopolitico, per non parlare del pericolo di secessione (citiamo solo il caso ceceno), senza dimenticare che parliamo di una delle maggiori potenze nucleari del globo; forse non è un caso se nella sua storia plurisecolare il paese non ha mai conosciuto un assetto compiutamente democratico, passando dal periodo zarista, a quello sovietico e, infine, postsovietico. Oltretutto non pare che i russi siano propriamente dei “fan” della democrazia “stile” occidentale: secondo un sondaggio commissionato dall’Istituto Nevada (2015) solo il 13 per cento pensa che tale opzione sarebbe conforme agli interessi nazionali, preferendogli una democrazia sul modello sovietico (16%) o per lo più uno in linea con le “specifiche tradizioni nazionali” (55%), il che è come dire che il regime in essere è approvato dalla maggioranza della popolazione (aggiungiamo, per incidens, che 4 russi su 5 si sono dichiarati a favore di Putin per la questione ucraina). Chiaramente non sono mai mancate le manifestazioni di dissenso, astrattamente lecite, come quelle in occasione dei funerali di Boris Nemtsov, oppositore politico ucciso in circostanze mai chiarite nel 2012, ma parliamo pur sempre di episodi isolati e/o limitati ad una ristretta fetta della popolazione. Per i più in Russia vige una sorta di patto non scritto tra il leader e il suo popolo: sicurezza, stabilità, benessere moderato vengono garantite in cambio di limitazioni politiche e democratiche di non poco conto. In un certo senso, nel comune sentire, è come se l’introduzione di una democrazia occidentale fosse vista come un meccanismo potenzialmente in grado di scardinare gli assetti interni e la stabilità della nazione. In Russia si vota periodicamente, questo va riconosciuto – potremmo dire lo stesso per l’Iran degli ayatollah – ma le elezioni sono “gestite”, per non dire manipolate e/o celebrate col contributo dei brogli perpetrati dal potere centrale. Il partito di Putin, Russia Unita, nato nel 2001 dalla fusione di due preesistenti forze politiche, ha un programma ufficiale d’ispirazione conservatrice e nazionalista, legato a valori tradizionali; in campo economico le scelte sono ispirate al liberismo o allo statalismo a seconda della fase contingente. Nei fatti è una sorta di partito-stato, che esprime dalla sua fondazione le massime cariche istituzionali e la maggioranza dei parlamentari, lasciando alle opposizioni (che pure esistono) solo le briciole. Un voto in controtendenza, però, è arrivato col rinnovo della Duma di Mosca del 2019, quando – sia pur di poche migliaia di voti – è prevalso il partito comunista, la principale forza di opposizione. Nelle ultime elezioni generali per la Duma federale (settembre 2021), Russia Unita ha conseguito la metà dei suffragi e la maggioranza dei seggi (al secondo posto i comunisti col 20%), mentre al vertice dei governatorati locali (le province della Federazione) siedono funzionari vicini al Cremlino, talvolta eletti con procedure chiamate a ratificare le indicazioni di Mosca. A tal proposito, tra i primi provvedimenti adottati subito dopo la sua elezione del maggio 2000, segnaliamo un decreto presidenziale col quale fu rivisto l’ordinamento federale russo: in pratica gli 89 (oggi 85) soggetti della Federazione veniva riuniti in 7 circondari, alla cui testa si insediarono uomini del presidente (da lui liberamente revocabili). Nel 2004, dopo gli attentati terroristici ceceni in Russia (scuola di Beslan), Putin ha optato per nomina diretta dei governi locali, salvo ratifica delle assemblee regionali. Sulla formazione degli Esecutivi federali nessun problema. Il partito del presidente, come dicevamo, si è sempre garantito la maggioranza alla Duma (il parlamento federale russo), per cui uomini di sua fiducia – come Michail Fradkov, Viktor Zubkov o Dimitrij Medvedev – si sono succeduti alla guida dell’esecutivo (attuale capo del governo è Michail Vladimirovič Mišustinun, un economista formalmente indipendente, ma pur sempre scelto dal Presidente). L’assunzione della carica di primo ministro da parte dello stesso Putin (tra il 2008 e il 2012), grazie alla staffetta col fedelissimo Medvedev (insediatosi come presidente), non ha affatto ridotto il potere politico del leader russo, il quale – pure grazie ad alcune modifiche costituzionali approvate nella fase finale del mandato presidenziale – ha potuto approfittare del potenziamento delle prerogative del premier ed ha continuato ad esercitare un’importante influenza sia nei rapporti internazionali (per esempio nella crisi della Georgia o del Caucaso), che all’interno della Federazione, con gli altri ministri relegati al ruolo di meri esecutori delle volontà del capo del governo (il presidente, a differenza di quanto avveniva in precedenza, in questo periodo non prese più parte alle riunioni dell’Esecutivo). Il Presidente della Federazione russa, carica detenuta da Putin nuovamente dal 2012 (Medvedev prese il suo posto come premier), viene eletto a suffragio universale e diretto ogni sei anni; gode, secondo la Costituzione, di ampi poteri, dalla politica estera alla difesa e sicurezza. Nomina i più alti funzionari e i membri del governo (salvo approvazione della Duma), cura l’applicazione delle leggi federali, e dispone di un generico potere di tutelare i diritti e le libertà del popolo russo. Una recente riforma costituzionale voluta dal leader russo (e approvata con referendum popolare) ha allungato fino a sei anni la durata del mandato presidenziale, consentendogli (dopo la rielezione del 2018) di prolungare ulteriormente la sua permanenza al Cremlino. Varie sono state le imputazioni rivolte al leader russo. Nel 2006 Putin fu accusato per la morte dell’ex colonnello del KGB Aleksandr Litvinenko, ufficialmente dovuta ad avvelenamento da radiazioni di Polonio 210. Lo stesso Litvinenko, prima di morire, accusò pubblicamente il presidente russo in un video, indicandolo inoltre come responsabile dell’omicidio della giornalista della Novaja Gazeta Anna Politkovskaja (autrice del libro La Russia di Putin, pubblicato in Italia da Adelphi); nessuna di queste accuse è mai stata dimostrata e le indagini interne si sono concentrate sui terroristi ceceni. Diversi altri giornalisti avrebbero ricevute minacce o intimidazioni – alcuni perfino uccisi – per indurli a non occuparsi di questioni politiche; per tutti ricordiamo il caso della giornalista Larissa Arap, rinchiusa nel 2008 in manicomio dopo le sue denunce sui centri per la cura di malattie mentali, dove pare fosse praticato l’elettrochoc perfino sui bambini. Altre accuse contro Putin hanno riguardato le violazioni dei diritti umani in Cecenia e le forti limitazioni nei confronti degli oppositori politici: ricordiamo, nel 2017, l’esclusione dalla candidatura presidenziale del democratico Aleksej Naval’nyj, contestata da Amnesty International, costata a Putin e al governo russo una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, compreso il ristoro delle spese sostenute da Naval’nyj per i suoi molteplici arresti, giudicati di matrice esclusivamente politica e persecutoria. Ad ottobre 2021 lo stesso Naval’nyj, considerato il maggiore oppositore politico di Putin, ha ricevuto il premio Sacharov per la libertà di coscienza, accompagnato da inviti alla sua liberazione (è agli arresti da gennaio) da parte delle più alte istituzioni europee. Per quanto suoni quasi paradossale, dopo quanto riferito, Putin si è schierato da anni per l’abolizione, previa moratoria, della pena capitale, a favore della quale si è espresso invece oltre il 70 per cento del suo popolo. Sul fronte del giudiziario, in particolare sul versante dell’indipendenza della magistratura, ricordiamo le parole pronunciate nel 2013 da Nils Muižnieks, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, secondo il quale si rende “… necessario continuare a intraprendere grandi riforme per porre rimedio alle mancanze sistemiche dell’amministrazione della giustizia e potenziare l’indipendenza e l’imparzialità del sistema giudiziario nella Federazione russa”; ricordiamo, tra l’altro, che, secondo la Costituzione, è il Presidente a indicare al Consiglio Federale (la camera alta del Parlamento, a sua volta espressione degli stati componenti la Federazione) i nominativi dei 19 giudici che compongono la Corte costituzionale, massima istanza giudiziaria della nazione. Putin, tra le altre, ha dovuto difendersi dall’accusa di voler instaurare un culto della personalità: tra gli accusatori inizialmente figurava il presidente bielorusso Aljaksandr Lukashenko (non precisamente un fautore della democrazia), che imputava a Putin di voler monopolizzare i mezzi di informazione e di far circolare suoi ritratti e immagini in stile sovietico. Negli anni sono fioccate, altresì, imputazioni (vere o presunte) di malversazione ai danni delle casse pubbliche, che avrebbero fruttato a Putin un patrimonio personale di 200 miliardi di dollari (cifra mai confermata, che ne farebbe l’uomo più ricco del pianeta), come sostenuto dall’analista politico Stanslav Belkovsky; Putin, con parte del maltolto, si sarebbe fatto costruire una faraonica residenza personale a Gelendžik, sul mar Nero, costata secondo alcune fonti circa un miliardo di euro. Non vanno dimenticate le accuse di omofobia, a causa delle normative sempre più restrittive approvate a partire dal 2013 e che, col convinto sostegno della Chiesa ortodossa, vietano in Russia ogni forma di propaganda o manifestazione a sostegno della comunità LGBT, ovviamente precludendo a qualsiasi apertura verso una tutela o riconoscimento legale delle comunità omosessuali; per la cronaca due terzi dei russi si sono espressi a favore di queste misure, per quanto almeno non si sia arrivati al ripristino del reato penale di omosessualità di staliniana memoria (che poteva costare fino a 5 anni di carcere). Nel complesso, quindi, un assetto tutt’altro che democratico, il che non sembra però compromettere, agli occhi del suo popolo, l’immagine e il sostegno per Putin: in un referendum celebrato nel 2020 (e fortemente contestato dalle opposizioni per i presunti brogli), una maggioranza dei due terzi ha approvato varie misure recentemente varate dal governo, tra le quali il divieto di matrimonio tra le persone dello stesso sesso e le pensioni minime garantite. Come dicevamo all’inizio, trascuriamo oggi gli affari internazionali: basti, per il momento, dare conto dell’accusa al presidente russo di aver tentato di condizionare l’esito delle elezioni presidenziali USA del 2016, per favorire la vittoria di Donald Trump contro Hillary Clinton e le altalenanti fasi nelle relazioni con l’Occidente, cui fa da contraltare l’avvicinamento alla Cina (e alla Turchia ed Iran, altri ex “nemici”). Precisiamo, per correttezza, che Putin ha sempre respinto e rinviato al mittente tutte le accuse. L’era Putin (sia come presidente che come primo ministro) è stata caratterizzata da una ripresa economica (rivalutazione del rublo e aumento della vendita di materie prime, come il gas o il petrolio), i cui proventi hanno finanziato un grande ammodernamento dell’impianto industriale e militare di memoria sovietica. Nel 2007 fu realizzato un nuovo missile intercontinentale e nuovi caccia militari, col proposito di restituire alla Russia la dignità di grande potenza. Sempre nel 2007 (sul finire del secondo mandato) Putin ha annunciato l’uscita dal trattato contro la proliferazione delle armi convenzionali in Europa, assumendo come pretesto il suo mancato rispetto delle altre parti contraenti. Nello stesso periodo Putin si è del pari opposto al progetto americano di realizzare il cosiddetto scudo spaziale (un sistema di radar) tra Polonia e Repubblica ceca. Meritano un cenno le diverse battaglie ecologiste del leader russo, come quella per la protezione della tigre bianca siberiana e di altre specie artiche a rischio d’estinzione (balena bianca, leopardo dell’Amur, orso polare). Sul versante ex sovietico ricordiamo l’unione con la Bielorussia (Putin nel 2008 è stato nominato capo del governo dell’organismo sovranazionale), un progetto di integrazione politica ed economica che però stenta a decollare. Nel corso del terzo mandato presidenziale si è assistito a un acutizzarsi delle tensioni con Washington, per esempio quando Putin accusò l’allora segretario di stato Hillary Clinton di voler influire sulle elezioni russe (nel 2011 c’era stato un calo di consensi per Russia Unita nelle votazioni per il rinnovo della Duma). Per parte loro gli americani rilanciarono le accuse di brogli elettorali. Le tensioni si accrebbero quando Putin concesse asilo politico all’informatico statunitense Edward Snowden, accusato di aver fatto trapelare informazioni riservate sull’intelligence americana. Sono arcinote le frizioni causate dalle decisioni di Putin sul versante mediorientale (col sostegno ad Assad) o sull’affare della Crimea, che ha fatto scattare l’embargo da parte di europei ed americani. Molto probabilmente, volendo tirare le somme, la definizione più corretta per inquadrare il regime politico di Putin è quella suggerita dal saggista Predrag Matvejevic, che ha parlato di democratura, una sorta di mix tra democrazia e dittatura, che cela un sistema politico oligarchico, a tratti repressivo, con ingegnosi meccanismi costituzionali, funzionali alla conservazione degli equilibri di potere. I poteri forti in Russia, pensiamo agli alti comandi militari e soprattutto ai grandi finanzieri e industriali, probabilmente continueranno a sostenere Putin (magari in tandem con il suo delfino Medvedev) se e fin quando egli sarà funzionale ai loro interessi: non si può neppure escludere che nel momento in cui le cose dovessero cambiare, Putin potrebbe essere messo da parte, magari facendolo dimettere per “motivi di salute” e creandogli una impunità di stato (come avvenuto per Eltsin, dopo le sue dimissioni). Non che manchino voci inerenti a un suo possibile ritiro dalle scene – grazie alla riforma costituzionale del 2020 egli potrebbe restare a potere, in tandem con Medvedev, perlomeno sino al 2036 – ma quel che occorre comprendere è che il sistema di potere russo è incentrato non tanto sull’uomo Putin, quanto su una fitta rete di interessi economici e militari dei quali lui è il portavoce. Una cosa, però, è possibile affermare: se pure un domani cambiasse l’inquilino del Cremlino, fosse pure espressione di altre e diverse forze politiche, ben difficilmente, stante l’assetto attuale, sarebbe ipotizzabile un mutamento dell’equilibrio costituzionale e politico, incentrato su una ristretta oligarchia, nominata più che eletta, che ruota attorno a personalità vicine al potere centrale, e che viene oggi incarnato dall’Amministrazione presidenziale, il cui capo, Anton Vajno, potrebbe un domani divenire il nuovo “Putin”. Se non si può propriamente parlare di voti liberamente espressi, tutte le tendenze che emergono dalle varie consultazioni popolari, per quanto “addomesticate”, sembrano confermare un certo margine di consenso, nonostante non possano dirsi del tutto prive di fondamento molte delle accuse riferite a brogli e intimidazioni, forse palesate dagli ultimi dati sull’affluenza alle urne (elezioni della Duma del settembre 2021), scesa per la prima volta sotto il 50 per cento.
di Paolo Arigotti