Pensando al Carnevale, qual è la prima immagine che ti viene in mente?
Sei tra quelli che collegano questo periodo a incontri e giochi di bambini mascherati da supereroi e supereroine?
Immagini invece te, ragazzo partecipe ad attesissime feste mascherate per ballare e ridere pazzamente insieme ai tuoi amici?
O ti sorge subito l’immagine dei carri di Viareggio, per poi dirottare il pensiero verso le mille sfilate, i mille cortei celebrati in tantissimi borghi, paesi e città italiane o straniere?
O ancora, trovi imbattibile Rio de Janeiro e lo straripante clima festoso che a suon di samba è capace di travolgere e dilavare ogni atteggiamento di serietà?
E’ sempre bello partire dall’esperienza personale, per indagare l’antico perché di tante festività e di tanti riti che continuiamo a vivere nel ciclico volgere degli anni in comunione con i nostri avi.
Ebbene, il nostro attuale vissuto carnevalesco è riconducibile, tra le varie fonti, a “Pippo bono”, cioè a san Filippo Neri, il quale, arrivato a Roma da Firenze come pellegrino nel 1534, osservava affascinato i festeggiamenti paganeggianti del Carnevale romano e li paragonava ai tristi riti religiosi, incapaci di captare l’interesse della gioventù.
Ben presto divenne presbitero e si dedicò ai ragazzi di strada romani, recuperandoli alla fede attraverso il gioco, i canti, la gioia.
Capì col tempo che è proprio la gioia della festa a creare emozioni e coinvolgimento nelle persone e colse il giovedì grasso datato 25 febbraio del 1552 per riorganizzare un antico pellegrinaggio, il giro delle Sette Chiese, trasformandolo in un affascinante e festoso corteo, a cui invitare tutta la cittadinanza, in contrapposizione con gli sfrenati cortei di Carnevale.
L’iniziativa ebbe molto successo. Il percorso si dipanava attraverso le quattro basiliche maggiori (San Pietro, Santa Maria Maggiore, San Giovanni, San Paolo fuori le Mura) e le tre minori (San Lorenzo fuori le Mura, Santa Croce in Gerusalemme, San Sebastiano).
Filippo trasformò quella che era in origine una processione penitenziale in una vera e propria festa, piena di canti, giochi e cibo distribuito durante soste ricreative, grazie alla magnanimità di nobili famiglie romane.
In particolare, era meraviglioso, lungo il cammino, arrivare alla Villa Mattei (l’attuale Villa Celimontana), dove il principe Ciriaco Mattei aveva concesso l’apertura dei giardini al popolo romano. Ancora il Belli, nell’’800, racconta di una vera e propria festa piena di allegria e cibo.
Durante il pranzo si mangiavano pane, uova, salame, formaggio, vino. Insomma, un’attraente occasione per fare festa, in diretta concorrenza con il carnevale di più antica tradizione pagana.
Così San Filippo Neri era riuscito brillantemente ad attrarre la festa del Carnevale, dirottandone gli eccessi verso la causa evangelica.
In verità il carnevale “cristiano” esisteva fin dall’VIII secolo e consisteva in un periodo di giochi e banchetti prima del digiuno quaresimale che avrebbe portato alla Pasqua. L’etimologia del nome Carnevale o Carnasciale ci porta infatti al latino medievale “carnem laxare”, o “carnem levare” cioè, togliere la carne.
Durante la festa poteva addirittura essere sovvertito l’ordine sociale: tutto poteva essere rovesciato e i nobili potevano trovarsi a dover servire i loro servitori e a essere angariati dalla gente più povera e sottoposta: per questo si usava nascondere la propria identità dietro una maschera, evitando così successive terribili vendette…
Ma le vere radici del Carnevale, come tutti sapete o immaginate, le rinveniamo in tempi antichissimi, a cominciare dalle feste elleniche in onore di Dioniso, che significavano per i Greci anche la possibilità di lasciarsi andare al bere e a ogni eccesso in nome e sotto la protezione del dio del vino, del dio di ogni trasformazione, di ogni passaggio, in particolare del passaggio tra la vita e la morte.
Nell’antica Roma, poi, feste come i Saturnalia (dicembre) e i Lupercalia (febbraio) avevano moltissimi tratti in comune con i successivi festeggiamenti carnevaleschi: le maschere, il sovvertimento dei ruoli, gli eccessi e infine il fantoccio cui dare ritualmente fuoco per purificare l’intera comunità.
Come spesso accade, dobbiamo riconoscere che siamo noi lo scrigno più prezioso e la testimonianza più viva, seppure inconsapevole, di storie millenarie, anche quando queste sembrano totalmente perdute, cancellate dai secoli.
E questo, lasciatemelo dire, è fuori dalla portata di qualsiasi “intelligenza artificiale” e di qualsiasi struttura “transumana”.
In noi, nei nostri corpi e nei nostri sentimenti rivivono, per fortuna, gesti, mimica, espressioni e modi, attraverso i quali siamo in grado di perpetuare noi stessi attraverso le generazioni.
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di Maria Cristina Zitelli