Il conflitto in Ucraina monopolizza oramai da oltre tre mesi l’attenzione del mondo occidentale, e non solo per le vicende belliche.
Sappiamo bene che Russia e Ucraina sono tra i primi produttori al mondo di grano e cereali, coprendo assieme circa un terzo dell’export mondiale, senza contare che grossomodo il 30 per cento dei suoli più fertili del pianeta insistono proprio in territorio ucraino. Non c’è bisogno di sottolineare l’importanza di questa risorsa, base dell’alimentazione di un quinto dei popoli della Terra. In Italia, giusto per fornire qualche dato, il 64 per cento del fabbisogno di grano (per la produzione di pane e biscotti) viene coperto con tali importazioni, senza contare il 53 per cento del mais per l’alimentazione del bestiame. I rincari non si sono, naturalmente, fatti attendere: assieme alle inevitabili spirali speculative, la semplice notizia dell’inizio della guerra ha provocato un aumento dei prezzi del 5,7 per cento in un solo giorno, toccando il record degli ultimi nove anni, pari a 9,34 dollari a bushel (o staio, unità di misura internazionale pari a circa 35 litri, corrispondenti a poco più di 27,2 kg di grano). Ma se l’Occidente non ride (e fa i conti con un carrello della spesa in costante aumento), il resto del mondo piange lacrime amare. Il rallentamento o il blocco dell’export – dovuto al combinato disposto delle sanzioni contro Mosca e del blocco dei porti ucraini e del mar Nero, senza contare il fatto che le vicende belliche impediscono o riducono le coltivazioni – colpiscono un po’ tutti, ma molto più pesantemente quelle nazioni o regioni del pianeta già alle prese con pesanti crisi alimentari. Russia e Ucraina sono, rispettivamente, il primo e il quinto esportatore mondiale di grano, e non vendono solo al “ricco” Occidente, ma anche e soprattutto a paesi del Medio Oriente (pensiamo solo allo Yemen, da anni alle prese con una catastrofica guerra civile) e del Nord Africa (l’Egitto è il primo importatore del mondo), che dipendono da tali importazioni, al pari di molti altri paesi africani o asiatici, che in pratica riescono (non sempre) a sfamare i propri abitanti coi cereali russi o ucraini. Qui non si tratta tanto di distribuire colpe o responsabilità, tralasciando per un istante il teatrino dei reciproci scambi di accuse tra Occidente e Cremlino, ma di prevenire una catastrofe umanitaria di proporzioni difficilmente quantificabili. Ad aggravare il quadro, la decisione della Russia di ridurre il suo l’export per salvaguardare gli approvvigionamenti interni, nonostante nel 2022 i raccolti siano stati abbondanti; Mosca ha previsto un aumento dell’export solo a mietitura conclusa, dopo l’estate. A tale riguardo, problemi potrebbero derivare dall’espulsione di molte banche russe dal sistema internazionale di pagamenti SWIFT, che potrebbe avere delle ripercussioni proprio nei pagamenti dei cereali. Lo stesso Dimitry Medvedev, ex presidente russo e attuale vicepresidente del Consiglio di Sicurezza, ha confermato che le esportazioni continueranno, specie verso le nazioni più povere, a condizione che i sistemi di pagamento internazionali non creino ostacoli al suo paese. Bisogna augurarsi che questo non avvenga: la storia insegna che la fame è una delle peggiori crisi da gestire, ammesso che si riesca a farlo.
di Paolo Arigotti