L’arcipelago delle Filippine, gruppo che conta più di 7.600 isole prevalentemente di origine vulcanica e con una superficie di oltre 300mila kmq, si colloca nel sud est asiatico, nel Pacifico occidentale. Il clima tropicale fa sì che il paese vada soggetto a fenomeni naturali devastanti, come uragani e tifoni, specie nei mesi da luglio a ottobre: nel 2013 il tifone Haiyan provocò danni enormi, uccidendo più di 10mila persone. Le Filippine sono tra le nazioni più densamente popolate: contano oltre 112 milioni di abitanti, con una densità di circa 365 per kmq, prevalentemente di etnia austronesiana, con una costante crescita (stimata in un +1,35 per cento nel 2020): la maggior parte si concentra nell’isola di Luzon e nell’area della capitale Manila. Molto elevati (superiori al 92 per cento) i tassi di alfabetizzazione. Lingue ufficiali sono l’inglese e il filippino, una variante della lingua tagalog del gruppo austronesiano; sono parlati anche lo spagnolo e l’arabo, unitamente a molti idiomi regionali e locali. La lingua araba è utilizzata soprattutto dalla minoranza musulmana, circa il 5 per cento della popolazione, discendenti dei commercianti indonesiani che portarono il loro credo nell’arcipelago, e che si concentra nella parte meridionale del paese. Tale minoranza, nel 1989, ha dato vita alla Regione Autonoma nel Mindanao Musulmano; storicamente è sempre stata la componente più agguerrita contro le dominazioni straniere, così come durante il regime di Marcos; è di questi giorni la notizia che, proprio nel territorio del Mindanao, è stato ucciso, nell’ambito di un’operazione antiterrorismo, Abdulfatah Omar Alimuden bin Abu Huzaifah, portavoce dello Stato islamico nell’Asia Orientale. I primi europei a giungere nelle Filippine furono i portoghesi nel 1521: quell’anno l’esploratore Ferdinando Magellano sbarcò sull’Isola di Homonhon, rimanendo ucciso un mese dopo per mano degli autoctoni. L’arcipelago divenne colonia della Spagna nel 1565, quando Miguel López de Legazpi vi fondò la prima città; furono proprio i conquistadores a dare alle isole il nome attuale, in onore del sovrano Filippo II. Il dominio di Madrid sarebbe durato circa tre secoli e vi avrebbe portato una serie elementi tipicamente occidentali, come la stampa e il calendario, fondando numerose città e introducendo nuove tecniche agricole e di allevamento. Notevole l’apporto culturale, con la creazione di numerose istituzioni educative, gestite per lo più da religiosi, i quali diffusero il cattolicesimo nell’arcipelago: ancora oggi il cristianesimo è la religione professata da oltre il 90 per cento dei filippini, per la maggior parte di fede cattolica. La colonizzazione spagnola si chiuse nel 1898, quando l’arcipelago fu assegnato agli Stati Uniti, in virtù del trattato di Parigi che concluse la guerra ispano-americana, lo stesso conflitto che condusse all’indipendenza cubana. Il governo filippino, tuttavia, non era intenzionato ad accettare nessuna soluzione diversa dalla piena indipendenza, tanto che l’arrivo della flotta americana nell’arcipelago (1899) scatenò un nuovo conflitto, che stavolta oppose gli isolani agli statunitensi. La guerra filippino-americana proseguì sino al 1902, con un pesante bilancio di vittime per gli autoctoni: qualcuno l’ha definita un primo Vietnam. Quell’anno gli americani dichiararono conclusi gli scontri, avendo avuto ragione degli insorti e catturato i principali leader indipendentisti, come Emilio Aguinaldo. La guerriglia, però, proseguì ancora per un decennio: solo nel 1913 gli ultimi combattenti deposero le armi. Fu così che le Filippine divennero un protettorato statunitense, con un governo locale subordinato a Washington. Nel 1935 gli USA concessero agli isolani uno speciale statuto autonomistico, ma l’occupazione giapponese nel corso del secondo conflitto mondiale arrestò il processo verso la piena indipendenza, alla quale si giunse solo nel 1946, quando fu eletto il primo presidente delle Filippine indipendenti, Manuel Roxas. Il nuovo governo, tra l’altro, dovette fronteggiare la guerriglia comunista, guidata da Luis Taruc, che fu definitivamente sconfitta solo nel 1954. Gli Stati Uniti conservarono un’importante influenza politica, militare ed economica sulle Filippine. In effetti, le isole rimasero nell’orbita degli Stati Uniti, ai quali le legava un trattato di difesa reciproca siglato nel 1951 e una serie di ulteriori intese, che sancirono il controllo americano di importanti basi navali. Alleati degli americani nella strategica area dell’Indo pacifico, le Filippine li hanno sempre sostenuti negli anni della guerra fredda, in occasione di importanti azioni politiche e militari (come le guerre in Corea e Vietnam), prendendo parte al disciolto SEATO, una sorta di Patto Atlantico dell’area, che comprendeva Australia, Francia, Nuova Zelanda, Pakistan, Thailandia, Regno Unito e naturalmente Stati Uniti; Manila ha supportato gli americani anche in occasione della guerra in Iraq, ricevendo a sua volta il supporto dell’alleato nel contrastare vari disordini interni, provocati soprattutto da marxisti e separatisti. Gli statunitensi hanno appoggiato a lungo il regime autoritario instaurato da Ferdinando Marcos. Questi arrivò al potere con metodi legali, vincendo per due volte le elezioni presidenziali, nel ’65 e nel ’69, primo capo di stato filippino ad ottenere un secondo mandato. La prima parte della sua presidenza portò, soprattutto grazie agli aiuti economici statunitensi, una fase di grande sviluppo, con importanti investimenti nelle infrastrutture e nei servizi pubblici. Tuttavia, il dilagare della corruzione e della criminalità, con una crescente opposizione politica e della minoranza musulmana del sud, fornirono a Marcos il pretesto per sospendere già nel 1971 i diritti e le libertà costituzionali: prontamente ripristinati sull’onda delle proteste popolari, l’anno seguente venne proclamata la legge marziale. Iniziava, così, il regime vero e proprio, caratterizzato da una diffusa corruzione e da significative violazioni dei diritti umani: venne duramente repressa qualunque forma di opposizione interna, comprese quelle dei lavoratori e degli studenti. L’avvento della dittatura, però, non arrestò la crescita economica, tanto che il PIL continuò ad aumentare negli anni Settanta. Tra gli aspetti più curiosi del lungo regno del dittatore la realizzazione di grandi progetti architettonici, come centri culturali, palazzi, altri edifici pubblici, funzionali più a glorificare il tiranno, che a reali esigenze della collettività. Marcos aveva al suo fianco la moglie Imelda, famosa per condividere col marito la brama di potere e molte delle decisioni più controverse: la first lady ricoprì diverse cariche pubbliche ed era ben nota la sua mania per lo shopping e per la collezione di beni e articoli di lusso, a cominciare dalle scarpe, delle quali sembra possedesse migliaia di pezzi. Tutto questo provocò la dilapidazione di risorse pubbliche e l’aumento del debito con l’estero, per quanto Marcos potesse a lungo contare sugli aiuti americani, i quali – nel pieno della guerra fredda – sostennero il regime, che si presentava come alfiere dell’anticomunismo (il partito marxista venne messo fuori legge). Marcos fu sempre confermato alla guida del paese grazie alle elezioni controllate dal regime, ma agli inizi degli anni Ottanta iniziò una fase di declino, dovuta alla crisi economica provocata dal crollo del prezzo delle materie prime. L’assassinio del leader dell’opposizione Benigno Aquino Jr., avvenuta nel 1983 al suo arrivo a Manila, preluse alla fine della dittatura. Nel febbraio del 1986, precedute da un’ondata di proteste e disobbedienza civile (cd. Rivoluzione del Rosario), si celebrarono nuove elezioni presidenziali, che videro il trionfo di Corazon Aquino, vedova dell’uomo politico assassinato, mentre Marcos, minato da problemi di salute e perduto l’appoggio delle forze armate, fu costretto ad andare in esilio con l’intera famiglia; sembra che portasse con sé molti dei fondi sottratti alle casse dello stato (si parla di 10 miliardi di dollari dell’epoca), trovando rifugio nelle isole Hawaii, dove avrebbe vissuto sino alla morte (1989). La caduta del tiranno ha consentito il ripristino della democrazia, regalando alle isole una nuova e importante fase di sviluppo economico, con una crescita costante negli ultimi decenni. Il nuovo assetto istituzionale (previsto dalla Costituzione del 1987) è quello di una repubblica presidenziale sul modello americano, con il capo dello Stato (che è anche capo del governo) titolare della funzione esecutiva, mentre il potere legislativo appartiene al Parlamento bicamerale (Senato e Camera dei rappresentati); ambedue le istituzioni sono elette a suffragio universale e diretto. Sono, inoltre, presenti forme di decentramento amministrativo, costituite da regioni e province (più quella speciale del Mindanao). Sotto la presidenza Aquino e del suo successore Fidel Ramos sono state ripristinate tutte le garanzie cancellate dal regime di Marcos (riportando alla legalità anche il partito comunista), mentre agli inizi degli anni Novanta fu avviato un primo ritiro dei militari statunitensi, oltre a siglare accordi di pace con gruppi dei militari ribelli. Nel 2014 fu sottoscritto con gli americani un nuovo accordo militare – l’EDCA (Enhanced Defense Cooperation Agreement) – che pareva preludere a un rafforzamento della cooperazione in funzione anticinese, segnando un ritorno delle forze statunitensi nell’arcipelago. In tal senso, la presidenza di Rodrigo Duterte (in carica dal 2016) segnò un’inversione di tendenza e un parziale avvicinamento (per lo meno economico) alla Cina popolare. I rapporti tra i due paesi non sono mai stati facili, vista la stretta alleanza con Washington e diverse e importanti diatribe sui diritti di pesca. In poche parole, Pechino voleva sfruttare zone di pesca del mar Cinese Meridionale, rientranti nella zona di interesse esclusivo delle Filippine: per dirimere la controversia, Manila si è rivolta ad un arbitrato internazionale, che le diede ragione nel 2016. Nonostante tali questioni e la tradizionale politica filoamericana, Duterte ha manifestato una certa propensione a intensificare i legami economici col potente vicino, irritando così Washington, che per ritorsione non supportò Manila nella vertenza sui diritti di pesca. Nell’intento di avviare una nuova politica estera indipendente, Duterte aveva annunciato, salvo poi tornare sulle sue decisioni, di voler abrogare il cosiddetto VFA (Visiting Forces Agreement) del 1999, un accordo militare che consentiva alle truppe statunitensi di stazionare nelle isole, rifiutando di prendere parte a varie esercitazioni militari nell’Indo pacifico. Questa linea politica era funzionale, almeno nelle intenzioni, a non creare attriti con Pechino: per accantonare definitivamente la disputa sui diritti di pesca, le Filippine di Duterte hanno accettato dai cinesi 24 miliardi di dollari di prestiti e investimenti per il finanziamento di progetti infrastrutturali. Duterte è stato considerato, fin dal suo insediamento, una figura controversa, vuoi per una serie di dichiarazioni sopra le righe e provocatorie, che per la lotta senza quartiere (pure col ricorso a contractor privati e leggi speciali) indetta contro la criminalità e la droga, che avrebbe provocato circa seimila vittime; anche sul versante della lotta alla pandemia, la gestione del presidente in carica è stata giudicata poco efficace – le Filippine sono stato il paese del sud est asiatico più colpito dai contagi – mentre molte delle misure speciali adottate sono state ritenute pretesti per mettere a tacere voci critiche e rappresentanti dell’opposizione. Ciò nonostante, parlare di una svolta nei tradizionali rapporti con gli statunitensi sarebbe azzardato. Se è vero che gli americani hanno bisogno dell’appoggio strategico di Manila nel confronto con la Cina, lo è altrettanto che i filippini hanno bisogno dell’aiuto (e della difesa) offerta dagli USA, fatto del quale è perfettamente consapevole gran parte dell’opinione pubblica interna. Gli accordi economici coi cinesi negli ultimi anni sono stati sicuramente importanti – ricordiamo quelli nel settore degli idrocarburi o nell’ambito del progetto della nuova via della seta, siglati in occasione della visita di Xi Jinping a Manila del 2018 – ma sul versante politico e militare le tensioni tra i due paesi permangono. Una dimostrazione pratica la si è avuta nell’aprile 2021, quando una flotta navale di Pechino è stata avvistata dalla guardia costiera filippina al largo di Manila: il governo isolano ha dichiarato di aver individuato, per il tramite dei suoi caccia, strutture “illegali” presso i banchi Union (nelle isole Spratly), nei pressi dell’atollo Whitsun (che i filippini chiamano Juan Felipe), dove già tra febbraio e marzo si sarebbero ammassati oltre 200 pescherecci cinesi. A seguito della formale protesta diplomatica elevata da Manila – appoggiata dagli americani, risoluti non tanto a sostenere le ragioni dell’alleato, quanto a bloccare le mire egemoniche dei cinesi nell’Indo pacifico – la Repubblica popolare ha replicato trattarsi di uno stazionamento temporaneo, dovuto alle cattive condizioni meteorologiche. Alla luce di quanto abbiamo visto sul regime di Marcos, non sorprende che abbia destato un certo clamore la vittoria del figlio del deposto dittatore, Ferdinando jr. (detto Bongbong, pare per l’abitudine da bambino di arrampicarsi sulla schiena del padre), in occasione delle ultime elezioni celebrate il 9 maggio, nelle quali ha sconfitto, col doppio dei voti, l’avversaria Maria Leonor “Leni” Gerona Robredo, vicepresidente uscente. Marcos sarà affiancato come vice da Sara Duterte-Carpio, figlia di Rodrigo: tra le promesse elettorali quella di garantire un miglior funzionamento di istituzioni e servizi pubblici e il pugno di ferro contro corruzione e criminalità, unitamente ad un progetto federalista: il tandem Marcos-Duterte potrebbe celare una sorta di patto di ferro tra le due più importanti dinastie politiche del paese, la prima più forte nel nord, la seconda nel meridione, cercando la quadra nella complicata questione dei rapporti con gli USA e con la Cina. Lo scrittore Miguel Syjuco, in un pezzo pubblicato sul New York Times, ha definito il presidente neoeletto «l’uomo che potrebbe rovinare le Filippine per sempre», mentre in tanti già paventano il rischio di una revisione storica del regime, enfatizzandone i tratti positivi, come la crescita economica (che obiettivamente ci fu), e tralasciando le uccisioni, le violenze e le ruberie del clan Marcos. Il prossimo presidente delle Filippine (entrerà in carica il 30 giugno) era ventottenne all’epoca della caduta del padre: ha studiato ad Oxford e durante il regime fu governatore di una delle province. Nel corso della campagna elettorale ha potuto contare sull’appoggio della madre Imelda, oggi novantatreenne, la cui popolarità lo ha certamente favorito; ricordiamo che la donna è stata assolta da tutte le accuse di corruzione, e dopo il suo ritorno in patria è stata più volte eletta parlamentare (nel 1995 fu anche candidata alla presidenza, classificandosi quinta); per la cronaca, nel 1998 la sua colossale collezione di scarpe finì al Museo della città di Marikina. Tra le prime uscite pubbliche del neopresidente, quella concernente proprio le rivendicazioni di Pechino sul mar Cinese Meridionale, circa le quali Marcos ha detto che non ci sarà nessuna cessione; almeno a parole, il prossimo capo dello stato sembra assumere un atteggiamento assai meno conciliante rispetto a quello del suo predecessore. Interessante anche la prospettiva di nuovi e più stretti legami con l’altra grande potenza asiatica, l’India. Subito dopo la vittoria Marcos, difatti, si è incontrato con l’ambasciatore di Nuova Delhi, col quale avrebbe parlato di nuove intese in campo agricolo, ma pure nel settore militare, considerato che Manila, a gennaio scorso, ha acquistato missili supersonici prodotti dalla società indiana BrahMos. Entrambe le parti avrebbero un chiaro interesse a rafforzare la partnership: Manila per svincolarsi almeno in parte dalla dipendenza dagli americani e Nuova Delhi per disporre di un nuovo e strategico alleato contro il tradizionale nemico cinese. Aggiungiamo che le Filippine, pur non intrattenendo (come quasi tutto il mondo) relazioni diplomatiche con Taiwan, hanno intessuto negli anni importanti relazioni economiche con la cosiddetta Repubblica di Cina: il Taipei Economic and Cultural Office (Teco), con sede a Makati City, rappresenta nei fatti il fulcro dei rapporti politici ed economico-finanziari tra i due stati insulari. Le relazioni sono fatte di commercio, investimenti, turismo e filiere industriali, assieme all’importante flusso di immigrati filippini sull’isola di Formosa. In passato non sono mancate, sempre per i diritti di pesca, diatribe con Taipei, ma le questioni sono state risolte grazie ad una serie di accordi tra i due governi. Del resto, le due repubbliche hanno un vicino molto ingombrante da gestire, la Cina, che se per i filippini rappresenta un problema, per i taiwanesi è una costante minaccia per la propria sopravvivenza. Dedicando ora qualche cenno all’economia del paese, l’origine vulcanica di molte isole ha donato loro importanti risorse naturali e un terreno molto fertile: il sottosuolo è ricco di giacimenti minerari, come oro (le seconde risorse al mondo, dopo il Sudafrica), rame (tra i primi produttori del pianeta) e l’importante risorsa geotermica, circa la quale le Filippine sono seconde solo agli USA, non sempre sfruttate in tutte le loro potenzialità; per la cronaca, è notizia di questi ultimi giorni quella di una nuova eruzione vulcanica nei pressi del villaggio di Juban, nella regione di Bicol. In generale, l’economia dell’arcipelago (per il 2022 il Pil ha segnato 335,8 miliardi di euro, quello pro-capite 3.454) si colloca al 115esimo posto della classifica mondiale, prima del Vietnam (126), ma dopo Indonesia (99) e Thailandia (74) (per la cronaca l’Italia è trentesima); nel mese di maggio il tasso d’inflazione, in risalita, ha toccato il 5,4 per cento su base annua. Il settore terziario è nettamente prevalente (circa il 60 per cento), in particolare quello avanzato, seguito dall’industria al 30 (specie alimentare, cemento, ferro, acciaio) e infine l’agricoltura e l’allevamento (specie del bovino carabao), il quale conta meno di 10 punti, ma occupa circa un quarto della popolazione. Abbiamo già detto dell’importanza della pesca, considerato che le Filippine posseggono oltre trentamila chilometri di coste. Nel settore dei servizi sono molto attivi i call center, che impiegano molti giovani, e le “sari sari”, le tradizionali botteghe a conduzione familiare, che vendono per lo più generi di prima necessità. Sono diffusi numerosi brands internazionali (Samsung, Colgate, Oreo, Facebook, Google) e locali (Philippines Airlines, Jack & Jill e Rebisco). Il più importante interscambio con l’estero avviene con Stati Uniti, Giappone, Cina, Singapore, Corea del Sud, Paesi Bassi, Hong Kong, Germania, Taiwan e Thailandia. Un’altra voce economica fondamentale, nonostante il blocco imposto dalla pandemia, è il turismo, attirato dagli splendidi paesaggi: sono stati 8,26 milioni gli arrivi nel 2019 e già si prospettano nuovi investimenti per favorire sviluppo e occupazione. Pesano molto anche le rimesse degli emigrati all’estero (i cosiddetti “OFW”, Overseas Filipino Worker), quantificato nel 2020 in 33 miliardi di dollari, circa il 10 per cento del PIL. Inoltre, assieme a Malaysia, Indonesia, Singapore e Thailandia, le Filippine sono uno degli stati fondatori dell’ASEAN, una sorta di comunità sovranazionale che riunisce oggi dieci paesi del Sud-est Asiatico: la rilevanza strategica che assumerà questa organizzazione regionale, nella prospettiva del confronto sino americano nell’Indo pacifico, è difficilmente valutabile, ma è verosimile che sia destinata a crescere nel futuro. In definitiva le Filippine, sia per la loro storia, che per la loro collocazione geografica, saranno chiamate a rivestire un ruolo tutt’altro che secondario, dato che si trovano inserite in quello che al giorno d’oggi (Ucraina a parte) è lo scenario geopolitico più importante e più “caldo” del pianeta. In tal senso, se è troppo presto per formulare qualunque previsione, visti i presupposti ben difficilmente sotto l’Amministrazione Marcos le Filippine si discosteranno molto dalla tradizionale politica di vicinanza alla superpotenza d’oltreoceano, magari con un occhio di riguardo al problematico vicino (e investitore) cinese.
di Paolo Arigotti