Le ultime bollette hanno stremato gli italiani.
Questa situazione ha fatto vedere una flessione in basso delle richieste di smart working da parte degli Statali, rispetto al boom avuto nel 2020, che ha portato i lavoratori statali a lavorare per mesi chiusi in casa, per evitare di contagiarsi e di contagiare gli altri con il Covid 19. I motivi di questo cambiamento di rotta dei dipendenti statali è che nessuno di loro vuole rimetterci a causa del caro bollette. E’ vero che si risparmia non andando tutti i giorni a lavorare, usando l’automobile e la benzina, che hanno i loro costi notevoli, ma è anche vero che, a conti fatti il lavoratore dipendente rinuncia allo straordinario, non ha il buono pasto e tenere acceso il computer per minimo 7 o 8 ore al giorno con dispendio di luce, carta per le fotocopie, connessione internet, senza un rimborso, spinge il lavoratore a tornare a tempo pieno in ufficio.
Attualmente sono state emanate le Linee Guida per il lavoro di smart working, e, nelle Pubbliche Amministrazioni, l’adesione al lavoro agile, avviene su base volontaria e passa attraverso un accordo tra dirigente e dipendente. Nasce, alla luce di quanto sopra esposto, un nuovo problema: gli statali adesso chiedono un bonus per coprire parte delle spese legate alle forniture di luce e gas, a fronte del maggior numero di ore che devono trascorrere a casa per effetto dello smart working, ma non riescono ad ottenerlo.
L’INAPP, Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, ente pubblico di ricerca (si occupa di analisi, monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro, delle politiche dell’istruzione e della formazione, delle politiche sociali e, in generale, di tutte le politiche economiche che hanno effetti sul mercato del lavoro) ha svolto una ricerca sull’impatto dello smart working e il rincaro bollette e il risultato è che di tutti i lavoratori presi in esame circa il 78% è dipendente (pari cioè a circa 17.295.929 individui), mentre il 21% è lavoratore autonomo e il restante 1,1% è collaboratore. Su 17 milioni di dipendenti pubblici, il 18% ha lavorato in smart working, ma il caro bollette e la mancanza di bonus per fronteggiarlo, ha fatto attestare il numero dei lavoratori disponibili a guadagnare di meno al 4%.
Inizialmente le aziende, erano legittimamente preoccupate di dover sostenere un maggior costo dei rimborsi. Infatti, nel nostro ordinamento, vige il principio di onnicomprensività, che è previsto dall’art. 51, comma 1 del TUIR, Testo unico sulle Imposte dei Redditi, che sancisce che costituiscono reddito di lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro. Si considerano percepiti nel periodo d’imposta anche le somme e i valori in genere, corrisposti dai datori di lavoro entro il giorno 12 del mese di gennaio del periodo d’imposta successivo a quello cui si riferiscono”. Pertanto, gli emolumenti in denaro sia i valori corrispondenti ai beni, ai servizi ed alle opere offerti dal datore di lavoro ai propri dipendenti costituiscono redditi imponibili e, in quanto tali, concorrono alla determinazione del reddito di lavoro dipendente. Ne discende, in linea generale, che tutte le somme che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore, anche a titolo di rimborso spese, costituiscono per quest’ultimo reddito di lavoro dipendente.
L’Agenzia delle Entrate nella risposta n. 314 del 2021, partendo dall’esame del testo dell’art.51 comma 1 lettera a) del TIUR, ha considerato la circolare n. 326 del 1997 di rimborso di spese di interesse esclusivo del datore di lavoro anticipate dal dipendente (si trattava di rimborso per utilizzo promiscuo di autovetture). Pertanto, ha ribadito che le spese sostenute dal lavoratore e rimborsate in modo forfettario sono escluse dalla base imponibile, solo nell’ipotesi in cui il legislatore abbia previsto un criterio volto a determinarne la quota che, dovendosi ritenere riferibile all’uso nell’interesse del datore di lavoro, può essere esclusa dall’imposizione prevista dall’articolo 51, comma 4, lettera a), del TUIR.
Circa la modalità di determinazione dell’ammontare della spesa rimborsata, nella Risoluzione 20 giugno 2017, n. 74/E è stato affermato che qualora il legislatore non abbia provveduto ad indicare un criterio ai fini della determinazione della quota esclusa da imposizione, i costi sostenuti dal dipendente nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, devono essere individuati sulla base di elementi oggettivi, documentalmente accertabili, al fine di evitare che il relativo rimborso concorra alla determinazione del reddito di lavoro dipendente.
Nell’ipotesi prospettata, l’Istante rappresenta che il criterio per determinare la quota dei costi da rimborsare ai dipendenti in smart working, in sostanza, si basa su parametri diretti ad individuare costi risparmiati dalla Società che, invece, sono stati sostenuti dal dipendente.
L’analisi condotta ha portato a ritenere adeguato un rimborso di euro 0,50 per ogni giorno di lavoro in smart working. Al riguardo, l’Istante ha prodotto una tabella in cui, per ogni “tipologia di spesa”, è indicato il “risparmio giornaliero per la Società” e il “costo giornaliero per dipendente in smart working”, stimato. In particolare, viene preso in considerazione il consumo di energia elettrica per l’utilizzo di un computer e di una lampada e i costi per l’utilizzo dei servizi igienici (acqua e materiale di consumo). Inoltre, l’Istante ha valutato che il lavoratore nel periodo invernale ha utilizzato un sistema di riscaldamento per un’ora al giorno.
La Società ha, inoltre, rappresentato di aver posto le seguenti condizioni:
– il luogo di svolgimento della prestazione in smart working è l’abitazione del dipendente o altro luogo, i cui costi diretti sono a suo carico;
– non si considerano le spese di vitto;
– non si considerano i costi di climatizzazione estiva;
– non si considerano i costi per la rete internet;
– non si considerano altri costi fissi, quali le spese di allaccio alla rete elettrica ed idrica in quanto ritenuti indipendenti dall’utilizzo dell’abitazione (o luogo ad esso assimilabile) per scopi lavorativi anziché ad uso esclusivamente privato.
L’Istante evidenzia, infine, che l’importo del rimborso giornaliero fissato in euro 0,50, è in realtà inferiore rispetto al risultato, relativo al costo giornaliero stimato (pari a euro 0,5135 e a quello risparmiato dalla Società pari a euro 0,5105).
Sulla base di tale considerazione, si ritiene corretto che la quota di costi rimborsati al dipendente, possa considerarsi riferibile a consumi sostenuti nell’interesse esclusivo del datore di lavoro.
In ragione di quanto affermato si concorda con la soluzione prospettata dal contribuente e, pertanto, si ritiene che le somme erogate dalla Società al fine di rimborsare il dipendente dei costi sostenuti attraverso le modalità rappresentate non siano imponibili ai fini IRPEF. (Fonte Agenzia delle Entrate Risposta 314 del 2021).
La possibilità di chiedere un rimborso spese, quindi, è reale e risolverebbe la crisi della scelta del lavoro agile da parte dei dipendenti pubblici, i datori di lavoro dovrebbero essere più malleabili e aderire alle richieste dei sindacati, per continuare ad avere i vantaggi conseguiti durante la pandemia: grazie allo smart working gli uffici possono ottenere una riduzione dei costi anche del 50%, è stato calcolato.
Purtroppo, non sono previsti rimborsi, almeno per il momento, da parte della Pubblica Amministrazione, questo nemmeno per i fragili, che fino al 2023 hanno il diritto all’accesso agevolato allo smart working, a patto che soffrano di determinate patologie.
L’esortazione del Presidente dell’INAPP è di prendere seriamente in considerazione i rimborsi ai dipendenti pubblici, anche perché i contagi Covid stanno risalendo e i lavoratori pubblici fragili e non potrebbero rinunciare a causa del caro bollette a lavorare da casa, invece “Lo smart working può rappresentare una soluzione anche per i problemi connessi all’elevato costo dell’energia”.
di Francesca Caracò