L’attuale situazione di caos armato in cui versa l’Europa e il vicino est ha rimescolato le carte della Storia e fatto piazza pulita della dottrina diplomatica, che ha dominato fino ad oggi. Gli equilibri venuti fuori dalla fine della guerra fredda, già ormai messi in crisi dall’emergere della potenza economica cinese, sono saltati. La gestione della “operazione militare speciale”, voluta da Putin in Ucraina, sconquassa ogni certezza di fronti e confini tra democrazie liberali e regimi autoritari. Gli organismi sovranazionali creati e rinnovati dopo le due guerre mondiali del Novecento si presentano obsoleti e immobilizzati dalle loro stesse strutture. Che dire di un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che aggredisce un paese sovrano?
Se nei primi due decenni del XXI secolo il nemico delle democrazie occidentali aveva le sembianze del fondamentalismo religioso islamico, in questo terzo decennio è emersa invece tutta l’ostilità dell’Oriente, popoloso e giovane, che afferma con orgoglio i suoi valori nazionalistici e la sua visione autoritaria della società.
All’universalismo illuministico europeo, ben affermato nella stessa Costituzione Europea, si contrappone l’eurasiatismo della Russia putiniana, che individua nell’ortodossia e nell’eredità bizantina la sua specificità.
Democrature, regimi autoritari versus decadenti democrazie liberali? A distanza di un secolo si ripete di nuovo il duello tra due modelli di società inconciliabili?
Già un decennio fa Tzvetan Todorov[1] ci avvertiva che la visione, per cui la sfida alla democrazia arriverebbe dai fondamentalismi religiosi e dal terrorismo, oltre che dalle dittature che li proteggono, fosse fuorviante, limitata ed anche pericolosa. Todorov riteneva che i rischi arrivassero dall’interno stesso delle società democratiche: un individualismo spinto all’eccesso, un neoliberalismo avido e senza regole che fagocita ogni struttura comunitaria, la deriva populista. Il filosofo bulgaro, naturalizzato francese, proponeva la necessità di rinnovare le strutture democratiche, ricercando un nuovo equilibrio tra i valori su cui si fondano.
A questa analisi fa eco l’attuale saggio del giornalista, professore e saggista Federico Rampini che nel recente Suicidio Occidentale approfondisce le ragioni di questa pulsione autodistruttrice che pervade il mondo occidentale, sostanziandosi in un processo costante alla nostra storia ed in un’opera di cancellazione dei nostri valori.
Da decenni per Rampini è in atto un disarmo culturale dell’Occidente, messo in atto dall’élite dominante, che nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, impone la demolizione di ogni autostima e la colpevolizzazione. Secondo questa visione non avremmo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, ma solo crimini da espiare. Rampini sostiene che l’aggressione di Putin all’Ucraina, spalleggiato da Xi Jinping, è anche la conseguenza di questo atteggiamento poiché gli autocrati delle nuove potenze imperiali son ben consapevoli, a differenza nostra, che ci sabotiamo da soli. Negli Stati Uniti è in atto da tempo un esperimento estremo che inizia a contagiare il Vecchio Continente, a cominciare da paesi più vicini come la Gran Bretagna. Nelle università, nei centri di formazione più prestigiosi, domina una feroce censura contro chi non aderisce al pensiero politically correct, che nato da esigenze di inclusione e correttezza verso le minoranze, finisce per assumere forme aberranti e di assoluta intolleranza.
La cultura woke è stata abbracciata con zelo sospetto da chi ha in mano le leve del potere, dai rettori universitari, dai padroni o direttori di TV e giornali, editori e sempre più spesso anche dai capitalisti e top manager delle grandi aziende. Nel mondo del business la linea viene dettata dai giganti miliardari di Big Tech, che alimentano il fenomeno del capitalismo neopuritano, dove l’apparenza della giustizia sociale si sposa bene con gli interessi del capitalismo digitale.
Il nucleo della tesi di Rampini è che le élite globaliste hanno rimosso la questione sociale che è sostanzialmente mancanza di redistribuzione, poiché in una società dove conta solo l’identità etnica o sessuale scompaiono le differenze di classe. L’America costituisce oggi il laboratorio del suicidio occidentale perché, diversamente dal passato, quei pezzi di cultura radicale che demonizzano e demoliscono ogni valore dell’Occidente sono cooptati nell’establishment. Vi è un allineamento totale fra la cultura antioccidentale e i poteri forti del capitalismo, della cultura, dei media, dell’industria dell’entertainment.
Di fronte alle potenze rivali di Cina e Russia, il suicidio occidentale, dice Rampini, è il sabotaggio di ogni difesa immunitaria, è la distruzione dei nostri anticorpi. L’establishment trova un grande tornaconto nel fervore di abbracciare la woke culture, poiché la politica identitaria consente di ignorare le vere disuguaglianze di massa e lasciare sostanzialmente tutto immutato, creando un mondo di cooptati, cordate, clan, che ricorda da vicino le aristocrazie di una volta.
Antidoto e al tempo stesso segnale dello stato di salute di una democrazia è la fiducia sociale ossia il livello di coesione della comunità e del rispetto degli altri. Le democrazie non possono che decadere, come ci mostrano le vicende storiche, quando l’iperindividualismo, l’egocentrismo, l’ossessione per i diritti dei singoli, la secessione dalla comunità e la sfiducia nel principio di autorità, prevalgono. C’è da chiedersi quale sia il nostro attuale stato di salute democratico.
di Rosaria Russo
[1] T. Todorov, I nemici intimi della democrazia, Garzanti Editori, Milano 2012