Lo scorso 22 ottobre si è concluso il ventesimo congresso del PCC, con l’elezione dei 203 membri del Comitato centrale, nel cui seno viene scelto l’ufficio politico o Politburo (24 componenti), che a sua volta esprime il Comitato permanente, vero e proprio centro politico e decisionale della Repubblica Popolare, che si compone di appena sette membri.
A farne parte saranno Li Qiang (capo del partito a Shanghai e premier designato al posto di Li Keqiang, finora numero due del regime, contestualmente estromesso dallo stesso comitato); Zhao Leji (responsabile organizzativo e prossimo presidente del Comitato nazionale del popolo, il vertice dell’ Assemblea nazionale del popolo, Anp, il parlamento cinese); Wang Huning (accademico e ideologo del partito), Cai Qi (componente degli organi direttivi ed ex sindaco di Pechino), Ding Xuexiang (direttore dell’ufficio generale del PCC e capo dello staff presidenziale, da molti visto come l’ombra di Xi) e Li Xi (segretario della commissione centrale per la disciplina e le ispezioni, una sorta di centro di epurazione interno). Naturalmente il settimo componente sarà Xi Jinping, confermato Segretario Generale del Partito e Presidente della Commissione Militare Centrale (l’organo che controlla le forze armate), che la prossima primavera sarà rieletto alla presidenza della Repubblica dall’Anp. Per comprendere il funzionamento del sistema politico cinese occorre adottare una logica di tipo piramidale: le singole comunità locali (come i villaggi) eleggono i propri rappresentanti, che a propria volta, riuniti nei comitati di villaggio, designano i delegati del livello superiore e così via, salendo verso l’alto, sino ad arrivare al vertice supremo; a questi meccanismi si affiancano procedure di consultazione e audizione, che, specie in ambito locale, includono forme di partecipazione e coinvolgimento della collettività sulle decisioni più importanti, naturalmente entro le linee politiche proprie del sistema socialista. Tornando al Comitato permanente, vero e proprio sancta sanctorum del potere cinese, se c’è un elemento che accomuna i “magnifici sei” (Xi a parte) è il fatto di essere tutti uomini del presidente: per la verità Wang Huning e Zhao Leji già erano membri del comitato, mentre Li Qiang, Li Xi, Ding Xuexiang e Cai Qi vi entrano per la prima volta. In questo modo è stata infranta una tradizione politica risalente al post-maoismo, fortemente voluta da Deng Xiaoping, secondo la quale nessun uomo avrebbe monopolizzato i principali posti di potere, oltre che riunire nella propria persona – come già Xi aveva fatto – le tre cariche che contano: presidenza della repubblica e della commissione centrale militare, assieme alla segreteria del partito. La condivisione del potere, secondo una logica in salsa cinese di “divisione dei poteri” (o, meglio, delle poltrone), avrebbe scongiurato il pericolo di nuove derive autoritarie e personalistiche, come avvenuto nel periodo della rivoluzione culturale, che vide Deng tra le vittime eccellenti, per sua fortuna solo in senso politico. Xi non solo si è garantita la fedeltà dei massimi organi dirigenti del partito, in ambito nazionale e locale, ma ha eliminato (politicamente parlando) ogni forma di opposizione interna, pure ricorrendo alla famosa crociata contro la corruzione. Inoltre, ha estromesso dal Comitato permanente la Lega della gioventù – l’organizzazione dove vengono “allevate” le giovani leve e i futuri dirigenti del partito – che da sola conta circa 90 milioni di iscritti, più o meno quanti ne ha il PCC, e che di solito esprimeva due membri del massimo organo dirigente. Rimarrà negli annali l’allontanamento dalla sala del congresso di Hu Jintao, ex presidente della Repubblica e punto di riferimento della lega, per ragioni mai del tutto chiarite, ma che potrebbe rivelarsi una sorta di resa dei conti in diretta televisiva. In occasione del recente congresso, Xi ha infranto altre due regole della Cina post-maoista: il tetto dei due mandati (questo sarà il terzo) e il pensionamento a 68 anni (il leader ne ha compiuti 69), che sembrano spianare la strada a colui che, non a caso, è stato ribattezzato il “Nuovo Mao”. Chiaramente è troppo presto per dire se questo significhi una sorta di potere a vita, anche se esiste il precedente di Deng (scomparso nel 1997 a 92 anni), che mantenne fino all’ultimo il controllo delle forze armate (senza però detenere altre cariche). Mettendo da parte ogni considerazione legata alle tradizioni cinesi, come il rispetto per gli anziani (l’episodio di Hu Jintao, in tal senso, ha destato un certo scalpore), l’accentramento di potere nelle mani di Xi sta già alimentando, in patria e all’estero, una serie di preoccupazioni e malumori, che potrebbero accrescersi nel lungo periodo. Si pensi a cosa avverrebbe (per il momento si tratta solo di un’ipotesi) se un assetto di potere troppo incentrato sul capo supremo desse vita a un clima di sospetto e timore, alimentando nello stesso Xi paure o paranoie (di sovietica memoria), tali da indurlo a scelte repressive (non solo in senso politico) nei confronti dei “nemici interni” (reali o potenziali). Per il momento, oltre al potere politico, Xi si è garantito anche il controllo dell’economia, incentrata sul binomio industria di stato e impresa privata, nel rispetto delle indicazioni impartite dal vertice politico: non a caso, il potere di indirizzo e controllo sull’economia è stato incardinato nell’ufficio del primo ministro, posizione destinata a Li Qiang, uno dei fedelissimi di Xi. Un altro importante tassello del potere di Xi deriva dall’aver piazzato ai vertici delle forze armate suoi accoliti, come il generale Zhang Youxia, secondo in linea di comando dell’esercito popolare di liberazione (le forze armate di terra) o il collega Lin Xiangyang, che ha diretto le imponenti esercitazioni militari organizzate da Pechino dopo la contestatissima visita a Taiwan della (quasi ex) Speaker della Camera USA, Nancy Pelosi, chiamati a far parte del nuovo Comitato centrale. Allo stesso tempo, Xi ha acquisito il controllo delle forze di polizia, sottraendolo al Consiglio di stato (l’organo esecutivo) e ponendole sotto la direzione della commissione militare centrale (da lui presieduta). In pratica, almeno per i prossimi cinque anni (salvo ulteriori rinnovi), il potere di Xi non sembrerebbe in nessun modo essere in discussione, per quanto, come fa notare Giorgio Cuscito su Limes:” Nel medio periodo, l’assenza di un reale ricambio generazionale ai vertici (l’età media nel comitato centrale è di 57,2 anni) e il possibile mandato a vita di Xi potrebbero generare nuove tensioni nel Partito. Magari combinandosi con le fragilità geopolitiche interne alla Repubblica Popolare.” Analizzando il contesto cinese che viene fuori dal recente congresso l’ambasciatore Alberto Bradanini, direttore del Centro studi sulla Cina contemporanea e già nostro capo missione a Pechino, parla di rottura di un sistema basato su regole e tradizioni, la cui violazione – al pari della stessa umiliazione pubblica di Hu Jintao – rischia un domani di essere pagata cara, non solo acutizzando un clima di sospetto e servilismo, ma pure le congiure interne, che nel lungo periodo potrebbero mettere in discussione un potere che per ora, se non assoluto, si avvicina molto a quello detenuto a suo tempo da Mao Tse-tung. Un ammonimento viene anche dalle parole di David Shambaugh, autore del saggio China’s leader, from Mao to now, che pronunciandosi su un possibile paragone tra Mao e Xi ha detto in una recente intervista: “Osserverei, tuttavia, che la sfida del nazionalismo per Xi e il partito è come controllarlo. Xi sembra alimentarlo, non controllarlo, ed è in pericolo di perdere il controllo.”, criticando aspramente (nel paragone con un altro grande leader, Deng Xiaoping) la violazione di regole e procedure sedimentate nel sistema di potere cinese. Come ricordava Bradanini i cinesi sono come “elefanti” e la memoria di certi fatti rimarrà: forse Xi sarà molto meno sicuro di quanto le apparenze potrebbero far credere. Di un’altra differenza importante tra Xi e Mao scrive InsideOver, quando riporta che l’attuale leader si ispira a “[…] nazionalismo, confucianesimo e socialismo di Stato; Mao era invece un cieco sostenitore del comunismo agrario.”, con l’obiettivo dichiarato di portare la Cina al centro del mondo (come ripete spesso “modernizzarsi senza occidentalizzarsi”), una finalità che certamente non apparteneva (si era del resto in un’altra epoca storica) a Mao. Se in Cina, dai tempi del grande timoniere, non c’è mai stato un solo uomo al comando e se le decisioni più importanti sono state condivise da una ristretta oligarchia selezionata su base rigorosamente meritocratica (magari in questo qualcosina l’Italia avrebbe da imparare…), un motivo dovrà pur esserci. Come ricorda Daniel Bell nel suo saggio Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia: “In Cina il principale ideale politico condiviso da funzionari di governo, riformatori, intellettuali e persone in genere è quel che io definisco meritocrazia verticale, intendendo una democrazia ai livelli inferiori di governo e un sistema politico che diventa progressivamente più meritocratico ai livelli più alti”. Alessandro Albana sulla rivista Il Mulino ricorda che: “Sebbene sia comunemente descritto come un regime monolitico, quello cinese è un sistema in cui convivono anime e interpretazioni politiche differenti, seppure tutte si muovano dentro e non oltre la cornice rappresentata dal Partito.” In altre parole, se parlando di Cina non riscontriamo nulla di paragonabile a una democrazia in senso occidentale, esisteva un complesso di regole e tradizioni, il cui superamento potrebbe avere effetti imprevisti e imprevedibili: se l’assetto oligarchico post totalitario voluto da Deng potrà essere messo in discussione, bisognerà vedere se o quanto quel sistema saprà resistere a ogni tentativo di forzatura. Nel frattempo, la dottrina e pensiero del leader (ispirata a valori come nazionalismo, sviluppo, sicurezza, socialismo e tecnologia) entrano nel pensiero ufficiale di stato. Ma resta da vedere se e fino a quando.
di Paolo Arigotti