Un obbiettivo sacrosanto. Dichiarato e conclamato da tutti, specie nel corso delle campagne elettorali, di ieri come di oggi, ma ben lungi dall’essere realizzato.
E le statistiche che impietosamente si succedono stanno lì a dimostrarlo. Le “fasce di povertà” si ingrossano; la “ricchezza” prodotta annualmente dal Paese non aumenta; il debito pubblico accumulato negli anni “costa” in termini di interessi una cifra enorme; le entrate che lo Stato realizza ogni anno attraverso i prelievi fiscali vengono perciò sistematicamente “decurtati” di un importo equivalente a quella enorme cifra di interessi. E parliamo di ben 4 o 5 punti di PIL, pari a 60/70 miliardi di euro!
Con il risultato che:
- il debito pubblico resta sostanzialmente invariato
- le “entrate” rimanenti, al netto degli interessi, non sono sufficienti ad evitare il “bordo della strada” ad un numero addirittura crescente di cittadini!
Un meccanismo infernale nella sua tragica semplicità.
Quali i possibili rimedi? In teoria molti. In pratica molti meno. Esaminiamoli.
Il primo rimedio (abusato per decenni!), sarebbe… aumentare il debito pubblico. Ma non è più possibile. Tra l’altro non lo consente l’Europa (Trattato di Maastricht che anzi ci impone di rientrare nei famosi parametri che, nella specie, prevedevano un limite massimo del 60% del PIL, mentre siamo al 105%!!!).
Il secondo rimedio, sarebbe… aumentare le entrate, cioè la pressione fiscale. Ma tutti (o quasi) i maggiori leader politici lo escludono ed anzi ne preconizzano un più o meno sensibile abbattimento. Si innesta in proposito l’annoso problema della lotta alla evasione fiscale (fenomeno comune a tutte le società moderne, ma di dimensioni decisamente patologiche nel nostro Paese). Problema la cui soluzione comporterebbe certamente concreti margini di rientro, ma le ricette finora adottate, purtroppo, hanno dato risultati appena apprezzabili, peraltro da verificare sia nella loro reale entità, sia nella loro “resistenza” nel medio lungo termine.
Il terzo rimedio – di natura esattamente opposta, ma non per questo da ritenersi “residuale” – sarebbe… diminuire le uscite. Qui le difficoltà sono più marcate, anche se non sempre trasparenti. Vediamone i perché.
Innanzitutto perché una più che consistente “voce” delle uscite attiene alla c.d. “spesa sociale” quella, cioè, che per raggiungere l’obiettivo dichiarato (di ” non lasciare nessuno al bordo della strada”) non solo non può essere ridotta, ma andrebbe decisamente razionalizzata e forse addirittura aumentata! Poi perché un’altra “voce” attiene alla c.d. “spesa istituzionale” e cioè ai costi di funzionamento degli Organi (dalla Presidenza della Repubblica, alle Camere e giù giù fino alle Comunità Montane ed alle decine di migliaia di Enti, non solo nazionali, ma regionali, provinciali e comunali più o meno “utili”…). Solo il parlarne fa scattare una serie di intuibili interessi e contro interessi, purtroppo consolidatisi nel tempo, al cui superamento si oppone la radicata convinzione secondo cui eliminarne, ridurne e comunque razionalizzarne esistenza e costi equivarrebbe ad una vera o presunta tragedia: la perdita di un malinteso consenso! Valga in proposito il fenomeno “casta”!!! Ed infine perchè c’è la “voce anomala” che va genericamente indicata come “spesa per la Pubblica Amministrazione”. Spesa “anomala” perché potrebbe e dovrebbe invece essere considerata ed utilizzata – con una coraggiosa rivoluzione “culturale” prima ancora che politico/gestionale – come un vero e proprio investimento. Con ritorni in termini di “profitti immateriali” ma non per questo meno rilevanti. Mi riferisco al “grado di soddisfazione” dei destinatari dei servizi che quelle Pubbliche Amministrazioni sono chiamate a fornire al cittadino, sia esso lavoratore, imprenditore, professionista, disoccupato, disabile o altro ancora! Grado di soddisfazione, peraltro, che spesso se non sempre si traduce anche in valori economici, sia pure indiretti, quali ad esempio il risparmio di tempo, la velocizzazione delle procedure, la sicurezza, la stessa serenità di vita.
Il quarto rimedio, che molti, non tutti purtroppo, ritengono addirittura prioritario, sarebbe relativo alla “produttività”: e cioè a quel “comportamento finalistico” individuale e collettivo in forza del quale ciascuno acquisisce/aumenta la propria consapevolezza:
- che è protagonista/responsabile del proprio “prodotto” (quantitativo e qualitativo);
- che l’insieme di tutti i “prodotti” fanno la ricchezza del Paese – il c.d. PIL – ;
- · che l’aumento della ricchezza del Paese aumenta la concreta possibilità di operare perché “nessuno resti al bordo della strada”.
Ovviamente attraverso l’adozione di meccanismi di ridistribuzione nuovi, moderni, efficaci che rispondano, però, ad effettivi criteri di equità.
Quali ad esempio:
l’equità retributiva e cioè la consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri, la garanzia effettiva di pari opportunità, il riconoscimento e la valorizzazione del merito, il rigoroso equilibrio ad ogni livello tra poteri e responsabilità;
l’equità previdenziale e cioè la netta separazione e la conseguente distinzione tra previdenza, strettamente basata sulla solidarietà di gruppo o collettiva (gestione trasparente dei contributi) ed assistenza, esclusivamente a carico della solidarietà generale e quindi del sistema fiscale, da erogare nell’ambito di un sistema di “Welfare attivo” perché, appunto, “nessuno resti al bordo della strada”.
In conclusione, esclusi i primi due rimedi, restano il terzo e il quarto, purché assunti ed interpretati nei termini illustrati e nel rispetto dei criteri di equità indicati. Si tratterebbe, in definitiva, di convincersi e di convincere che:
- l’emancipazione dai bisogni non è incompatibile con la liberazione dei meriti;
- la produzione crescente della “ricchezza” del Paese è presupposto indispensabile per il corrispettivo crescente benessere dei suoi cittadini.