Cosa sta succedendo in Kosovo

Cominciamo da quanto accaduto negli ultimi giorni, dopo di che cercheremo di capire come e perché si sia arrivati a questo punto. Non è inutile citare il grande analista George Friedman, che da poco su Geopolitical futures ha scritto che: “In the Balkans, memories are long and unforgiving”; in questo, come in molti altri casi, ha sicuramente ragione.

Un crescendo di tensioni si è registrato da quando, nel 2015, Pristina rifiutò di applicare l’accordo di Bruxelles (mediato dalla UE), che prevedeva la costituzione dell’Associazione delle municipalità serbe, una sorta di status autonomistico per le regioni kosovare a maggioranza serba: una decisione che aveva messo la parola “fine” a qualsiasi prospettiva di pacificazione con Belgrado, impedendo quel riconoscimento in difetto del quale, dal punto di vista serbo, il Kosovo resta una provincia ribelle, considerata storicamente la culla della propria civiltà. A riprova dell’acutizzarsi delle tensioni leggiamo un lancio della Adn Kronos del 18 dicembre: “La missione della Nato in Kosovo (Kfor) ha confermato di aver aumentato la propria presenza al valico di Jarinje, al confine con la Serbia, dopo che un gruppo di serbi si è avvicinato per protestare contro la presenza della polizia kosovara. Secondo l’emittente di Belgrado Rts, i serbi hanno superato una prima linea di sicurezza ma sono stati fermati a 50 metri dal posto di blocco.” La stessa agenzia informa che il comando della missione militare – ancora oggi l’unica e sola forza armata presente in Kosovo, che di suo ha solo forze di polizia – ha confermato a un quotidiano kosovaro il rafforzamento della propria presenza, per scongiurare scontri o violenze. Solo il giorno prima, l’Ansa informava che “Nel nord del Kosovo prosegue la protesta della locale popolazione serba che da una settimana attua blocchi stradali e barricate per chiedere il rilascio di alcuni ex agenti serbi della polizia kosovara arrestati e il ritiro delle unità della polizia speciale inviate nel nord dalla dirigenza di Pristina nei giorni scorsi. La protesta è diretta al tempo stesso contro la generale politica del governo del Kosovo, ritenuta ostile e discriminatoria nei confronti dei serbi.” Operazioni e movimenti di truppe sono in corso mentre scriviamo questo articolo. In sostanza si stanno risvegliando, o per meglio dire non si sono mai del tutto acquietate, quelle tensioni etniche deflagrate nelle guerre degli anni Novanta, che hanno avuto una tragica appendice nel conflitto kosovaro di fine decennio. I fatti di questi giorni hanno avuto una premessa la scorsa estate, con la cosiddetta questione delle “targhe”: in pratica l’imposizione della targa e della documentazione kosovara per i veicoli della minoranza serba, non accettata da questa ultima. Le tensioni alle stelle tra fine luglio e inizio agosto, si erano (almeno apparentemente) risolte grazie alla mediazione della UE, che ha ottenuto un differimento nell’entrata in vigore delle nuove misure al 2023. Nel frattempo, però, per protestare contro tali provvedimenti magistrati, amministratori e funzionari di etnia serba del Kosovo si sono dimessi in massa per protesta. Detto in altri termini, una misura di tipo amministrativo e burocratico, ha finito per trasformarsi nella classica miccia, pronta ad accendersi per far scoppiare la bomba. Ricordiamo che nel nord del Kosovo vive una consistente minoranza serba, circa 500mila persone, con una concentrazione nel centro di Mitrovica nord, dove i serbi costituiscono la componente etnica prevalente. La minoranza serba da sempre accusa il governo di Pristina di discriminazioni ai suoi danni, nonostante alcune intese siglate nell’ultimo decennio avessero fatto ben sperare. A peggiorare le cose, negli ultimi giorni, è intervenuto l’arresto di un poliziotto serbo kosovaro, accusato dalle autorità di terrorismo e cospirazione. Per l’analista Giorgio Fruscione, esperto di Balcani, sentito dal Fatto quotidiano, non sarebbe stato irrilevante (escludendo però un coinvolgimento diretto del Cremlino) il ruolo della Russia. “Mosca intende sfruttare le tensioni per allontanare i Balcani da Nato ed UE e rafforzare il soft power con cui agisce nella regione da anni”. Ricordiamo che, al pari della Serbia, neanche la Russia ha mai riconosciuto l’indipendenza kosovara, come del resto Cina, India e Brasile, e che è stato proprio il veto di Mosca ad impedire a Pristina l’ingresso nell’ONU. Visto l’inasprirsi del clima, Belgrado ha proposto di inviare proprie truppe per tutelare l’incolumità dei suoi connazionali, ma la richiesta è stata respinta dalla Nato (della quale, giova ricordarlo, il Kosovo non fa parte). Eppure, prima di inoltrarla, il presidente serbo Aleksandr Vucic (considerato un “occidentalista”) aveva invitato i serbi del Kosovo a desistere da aggressioni contro le forze di sicurezza internazionali o di sicurezza, chiedendo a queste ultime di non rimuovere con la forza i blocchi stradali, esulando così dalle proprie prerogative. Per Azra Nuhefendic, giornalista e scrittrice bosniaca, che riprendiamo dal Sussidiario.net: “la richiesta di Vucic di inviare truppe serbe in Kosovo era puramente retorica, sapeva benissimo che non sarebbe stata accettata, ma lo ha fatto per mantenere il consenso in patria, mostrando i muscoli”. Belgrado, sempre secondo la Nuhefendic, “sta usando la stessa strategia usata trent’anni fa in Croazia, che portò allo scoppio della guerra in Jugoslavia, creando caos e disordini. Ma è una strategia perdente oggi come lo fu allora”. Di sicuro non aveva contribuito a rasserenare gli animi la decisione dalle autorità di Pristina – guidate dalla Presidente Vjosa Osmani e dal premier Albin Kurti (dai taluni visto come un “populista”) – di anticipare a metà dicembre le elezioni locali, per sostituire i sindaci e funzionari elettivi dimissionari dopo l’affare delle targhe, percepita dai serbi come la volontà di sostituire le precedenti figure con elementi vicini a Pristina. Per restare alla cronaca delle ultime settimane, leggiamo sulla testata Remo Contro del 10 dicembre scorso che “Nella notte tra l’8 e il 9 dicembre 2022 oltre 300 agenti armati della ‘polizia speciale kosovara’, appoggiati da veicoli blindati, sono entrati nel settore serbo di Kosovska Mitrovica. Una operazione, secondo le fonti di Pristina, che riguarda l’intero nord del Kosovo a maggioranza serba e che ha l’obiettivo di garantire la sicurezza di tutti i residenti, indipendentemente dall’etnia, contro la criminalità diffusa e le minacce all’ordine pubblico.” Fruscione, ricordando i dissidi e le tensioni maturate nel tempo, ha parlato di scontri interni al Kosovo, pur escludendo lo scoppio di una guerra in stile Ucraina; la Russia, come accennavamo, potrebbe cercare di sfruttarli a proprio vantaggio, per accrescere le fratture tra un suo tradizionale alleato come la Serbia, e l’Occidente (leggi Nato e UE). In effetti, lo scoppio del conflitto ucraino e un’intesa recentemente siglata sulla politica estera hanno avvicinato ulteriormente Mosca e Belgrado, la quale non a caso non ha aderito alle sanzioni contro la Russia, vedendo però allontanarsi le prospettive per un suo ingresso nella UE. Nonostante i russi respingano ogni addebito e giudichino quanto accade in Kosovo come “una escalation pericolosa, ma non inaspettata”, e che il portavoce del Cremlino, Dimitry Peskov, abbia recentemente smentito ogni contatto diretto tra Putin e il presidente Vucic, l’Ucraina, per bocca del parlamentare Oleksiy Goncharenko, in un Tweet dell’estate scorsa, aveva accusato Belgrado di essere il “cavallo di Troia di Putin in Europa”, dichiarando che in caso di aggressione serba al Kosovo Kiev sarebbe intervenuta (non si sa come o con quali forze…). Per parte sua, il ministro degli Esteri tedesco ha ritenuto la Serbia l’unica responsabile della crescita delle tensioni. Nella lettura fatta per Limes da Daniele Santoro: “I Balcani occidentali sono il ventre molle dell’impero europeo dell’America e la porta d’accesso privilegiata al Vecchio Continente dei rivali della superpotenza. In quanto periferia euro-mediterranea scarsamente presidiata, Russia e Cina la percepiscono come scenario ideale di un confronto che non ha la regione come posta in gioco immediata. Le fibrillazioni in Bosnia-Erzegovina e le crescenti tensioni tra Serbia e Kosovo forniscono a Mosca il pretesto per il potenziale allargamento del conflitto di prossimità con gli Stati Uniti.” Lo stesso analista riterrebbe imprescindibile una diretta partecipazione italiana, visto che il nostro paese ha investito parecchio in Kosovo e già fornisce il secondo contingente per importanza nell’ambito della missione Kfor (guidata dal generale italiano Angelo Michele Ristuccia). A riprova del coinvolgimento del nostro paese, ricordiamo che in occasione della crisi delle targhe dell’estate scorsa ci fu “… l’immediato dispiegamento dell’Unità multinazionale specializzata dei Carabinieri basata a Prishtina sul ponte sul fiume Ibar (Mitrovica) nella notte tra il 31 luglio e il 1° agosto, all’apice delle schermaglie tra kosovari e serbi.” Questo senza dimenticare che il nostro paese dovrà vedersela con due attori non secondari, come la Germania (specie sul versante economico) e la Turchia, che non nasconde le proprie mire egemoniche, approfittando della situazione ingenerata dal conflitto ucraino e dell’abilità diplomatica di giocare su più tavoli dimostrata ultimamente dal presidente Erdogan. Non va trascurata, inoltre, la crescente importanza dell’influenza cinese nei balcani, vuoi perché la Russia è concentrata nello scacchiere ucraino, vuoi perché lo scoppio del conflitto ha reso i Balcani occidentali preziosi per ricercare nuove rotte (per il momento non di primo piano) per la nuova via della seta: non a caso diversi accordi economici e militari sono stati siglati, anche di recente, tra Serbia e Repubblica popolare, per quanto non siano mancati motivi di tensione, come, ad esempio, le questioni ambientali o quelle legate ai diritti dei lavoratori. Nonostante la molteplicità e importanza degli attori in campo e l’impegno bellico, possiamo affermare che ben difficilmente la Russia vorrà rinunciare all’alleato serbo, al quale la legano la comunanza della radice slava e del credo religioso, ragion per cui ogni scenario di uno scambio – proposto dagli europei – tra il riconoscimento del Kosovo e un ingresso nella UE di Belgrado sarebbero visti come fumo negli occhi da Mosca. Per Friedman: “Un altro conflitto tra Serbia e Kosovo non cambierebbe di per sé il corso della guerra ucraina, ma potrebbe, a basso costo, far perdere un po’ di concentrazione agli americani se dovessero dirottare le forze per proteggere il Kosovo, una sorta di obbligo che risale agli anni ’90. In ogni caso, la Russia ha poco da perdere e la Serbia è sempre pronta a scontrarsi con il Kosovo.” Mentre la UE si barcamena ancora una volta (e con scarsi risultati) sul fronte diplomatico, l’analista Lorenzo Vita (Il Giornale) legge così la crisi in corso: “Possibile che questo faccia parte di un complesso negoziato in cui si prova ad alzare l’asticella dello scontro per ottenere garanzie”; una conferma di questa interpretazione potrebbe arrivare dalla recente richiesta kosovara, dal sapore provocatorio, di adesione alla UE, una opzione del tutto inverosimile visto e considerato che diversi stati membri (tra i quali Spagna, Grecia e Romania) non ne riconoscono l’indipendenza Resta difficile esprimersi sul futuro del Kosovo, come più in generale dei Balcani, definiti significativamente la “polveriera d’Europa” o una “bomba ad orologeria”; un fuoco lasciato acceso, riferendosi esplicitamente al Kosovo, fu il commento del generale italiano Marco Bertolini. Gaetano Massara, scrivendo su Limes del 28 maggio 2021, profilava cinque scenari futuri per il Kosovo. A parte il mantenimento dello status quo attuale, quello più probabile, si parlava del riconoscimento serbo in cambio di un ingresso nella UE (ipotesi al momento piuttosto remota, come abbiamo visto), la creazione di distretti autonomi (stile Alto Adige) o lo scambi di territori, una sorta di divisione su base etnica del Kosovo, tra Belgrado e Tirana. Visto e considerato che, come abbiamo visto nel corso del 2022, nella geopolitica internazionale si innestano molte variabili, non tutte (forse) prevedibili, meglio non spingersi troppo in là. Una cosa, però, messa da parte ogni ipocrisia, rimane certa: il destino delle piccole nazioni (riconosciute o meno) resta in mano ai grandi attori, ragion per cui dipenderà soprattutto da questi ultimi, prima ancora dai loro interessi (e sfere d’influenza), in perenne contrasto, il futuro del Kosovo, dei Balcani e non solo. Se la soluzione di una maggiore omogeneità etnica potrebbe sembrare in astratto la più efficace, occorre tenere a mente quanto scriveva, a giugno scorso, Edoardo Incani: “Se la possibilità di perseguire una maggiore compattezza etnica delle entità politiche esistenti rappresenta, in apparenza, una strada comoda e allettante per superare le problematiche attuali, gli elementi sopraccitati costituiscono però delle incognite da tenere in considerazione.” Come dargli torto?

di Paolo Arigotti