Lorenzo Cantini, in arte Gaube (in omaggio al cognome della nonna di origini tedesche), è un cantautore di 27 anni proveniente da un piccolo borgo dell’Alta Maremma con l’urgenza espressiva di dar voce a temi e riflessioni che l’arte – la musica odierna più nello specifico – faticano o non vogliono raccontare.
Qualche critico musicale ha affermato che uno spettro si aggira per la discografia italiana. Sarebbe, appunto, lo spettro di GAUBE, cantautore schierato sul fronte di un nuovo prog-rock intriso da marcate venature psichedeliche e animato dalla volontà di reinterpretare la tradizione cantautorale degli anni ’70.
Anticipato dal singolo Muro, è uscito il 10 marzo Kulbars, album d’esordio del giovane Lorenzo Cantini che ha scelto un nome d’arte dal sapore mitteleuropeo. Il disco esce per Bonimba/Santeria/Audioglobe ed è stato prodotto da Francesco Cerasi. https://orcd.co/gaube_kulbars
Artista decisamente engagé, nato e cresciuto in Maremma prima di trasferirsi nella “rossa” Bologna, Gaube è un outsider della nuova musica italiana, tanto disinteressato alle logiche del mercato discografico quanto convinto sostenitore di un approccio militante all’espressione artistica e di una musica politica che guarda con ammirazione a De Andrè e agli Area ma anche, dal punto di vista più strettamente musicale, ai Genesis e ai Pink Floyd e ai più contemporanei Verdena e Iosonouncane.
“L’arte deve tornare a farsi politica e per farlo deve necessariamente legarsi alle grandi questioni del presente” è il concetto che guida la produzione artistica di Gaube, che aggiunge: “mi ispiro molto al progressive rock in senso lato, le strutture delle canzoni sono completamente libere. La maggior parte di esse infatti non ha ritornelli, alcune hanno solo strofe, altre al posto dei ritornelli hanno dei temi strumentali e così via”.
Sorretto da testi al tempo stesso poetici e asciutti, densi di metafore potenti e di strofe immaginifiche cantate da una voce ruvida e ombrosa, dominato sul piano strumentale da piano a coda, mellotron e sintetizzatori, Kulbars è un disco politico di nove canzoni che mette in discussione l’ordinaria forma-canzone e sviluppa un’architettura complessa, fatta di continui rimandi fra i vari brani, così da fare emergere una cartografia di quei temi sociali e di quelle contraddizioni che rischiano di far esplodere il nostro presente: le disuguaglianze sociali, lo sfruttamento capitalistico, la crisi ambientale e quella della democrazia, le migrazioni. A partire dalla canzone che dà il titolo all’album – da “kolbar” o “kolber”, termine usato per indicare quei lavoratori che trasportano merci sulla schiena, legalmente o illegalmente, attraverso i confini di Iran, Iraq, Siria e Turchia – che insieme a La crepa, il declino costituiscono il dittico introduzione/chiusura. Aperta da sonorità cosmiche care ai cultori dei Seventies ma anche di certo kraut-rock, la title-track è una sorta di immediata dichiarazione di intenti dell’intero album, perché tocca contemporaneamente diversi temi ricorrenti nelle altre tracce: da quello dei migranti sfruttati dalle mafie come braccianti a basso costo all’illusione e alle contraddizioni generate dall’attivismo digitale, pratica utile a ripulirsi la coscienza ma inefficace sul piano di un’effettiva trasformazione del reale. Teso in una dialettica fra pessimismo e (appena accennato) ottimismo, critica e utopia, il brano di chiusura è forse quello più autobiografico, cupa e malinconica ninna nanna di una generazione nata in un mondo in decadenza, la cui prospettiva è la crisi stessa.
Le successive tracce Verme, Spettro e Sangue (parte I e II) formano una narrazione unitaria che vede al centro un immaginario protagonista, esponente dei ceti più deboli, e il suo flusso di coscienza. Fra arpeggi di chitarre, organi che disegnano scenari epici, accenni heavy e addirittura sconfinamenti electro-dance, questo piccolo “romanzo di formazione” politica si articola in sequenza attraverso la presa di coscienza di classe (Verme), la presa di coscienza politica e la conseguente radicalizzazione ideologica (Spettro); e l’attualizzazione del desiderio di cambiamento in militanza politica (Sangue). Sono quattro canzoni che trovano un’ulteriore sintesi in Arriverà, brano che ruota attorno ai temi del lavoro, dell’illusoria mobilità sociale e della repressione delle rivendicazioni politiche.
Confini e Muro sono invece un dittico formato da due tracce speculari: entrambe si concentrano sul tema delle migrazioni ma mentre la prima sviluppa un discorso più generale e introduttivo in un orizzonte sonoro quasi onirico, la seconda scava più in profondità evocando quelle meno raccontate che riguardano le frontiere balcaniche, dove centinaia di giovanissimi esseri umani tentano disperatamente di entrare in Europa, quella terra promessa che in realtà dimostra di essere un “Castello di false libertà”. Chitarre taglienti, sintetizzatori, organi elettrici, furia ritmica e immagini forti che si susseguono fanno di Muro un brano dalla dimensione “cinematografica”.
Avvolto da suoni che vengono dal passato per portarci nel futuro, Kulbars è un disco che rende chiara l’urgenza espressiva e ideale di una personalità artistica forte e consapevole, mai superficiale e banalizzante, in grado di mettere a fuoco con rara sensibilità (e ancor più rara coscienza) la drammatica complessità di questi tempi.
di Eleonora Marino