Lucrezia Maggi, poetessa e narratrice tarantina, dal 2007 ad oggi, ha al suo attivo numerose pubblicazioni, di poesia e di narrativa. “Come nel ventre di una madre” è il titolo del suo ultimo romanzo.
Viviamo in una realtà dove è sicuramente interessante scrivere proprio perché il mondo è sempre più fatto di persone che, con estrema facilità indossano e sostituiscono maschere. Che ne pensi?
Indipendentemente dal contesto storico, l’essere umano ha sempre avuto l’esigenza psicologica di adottare delle maschere al cospetto degli altri, proprio come scrisse il sociologo Erving Goffman nel libro “La vita quotidiana come rappresentazione”. Secondo Goffman la libertà individuale è un’utopia e la vita quotidiana dell’essere umano è scandita come una performance teatrale dove ognuno di noi non può fare a meno di interpretare una parte, complementare a quella di tutti gli altri individui con cui ci rapportiamo. Questo per chi scrive può essere sicuramente fonte d’ispirazione, ma, per quello che mi riguarda e soprattutto quando scrivo poesia, l’ispirazione nel novantanove per cento delle volte mi coglie nelle situazioni più disparate ma nelle quali mi è proprio impossibile scrivere. Con il tempo ho imparato a fissare nella mente solo le cose davvero importanti, le immagini che mi parevano più efficaci, le sensazioni che me l’avevano portata per poi con calma, rielaborare quel che era rimasto, appuntarmelo da qualche parte, e solo dopo un po’ di tempo metterlo davvero su carta. Con la narrativa, soprattutto in questo romanzo, le cose sono andate un po’ diversamente: ho osservato molto, ho scavato profondamente, analizzando accuratamente scenari e dimensioni temporali, fatti, cronaca dei nostri giorni. Desideravo che tutti i personaggi principali di “Come nel ventre di una madre” avessero una propria storia da raccontare ben diversa da quella che in una lettura di superficie appare. “Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là, dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io”. Questo aforisma di Luigi Pirandello ci suggerisce che oltre e dentro ogni individuo può esserci altro; debolezze, delusioni e perdite difficili da accettare spesso celate dietro maschere di circostanza. Questo è quello che nel mio libro ho voluto evidenziare.
“Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte” scrisse il filosofo Nietzsche, scrivere fa un po’ morire ma rende sicuramente forti, specialmente in una “città martire” come la Taranto dell’Ilva?
Vivere una realtà indubbiamente difficile come quella che è costretta a subire la città cui appartengo, non è riuscita, comunque, a farmi sentire vittima del sistema, di un destino, che, in fondo, ci è stato mal cucito addosso. Spesso si associa Taranto all’ex Ilva, alle numerose morti causate dal Mostro che nutre e avvelena i suoi figli, dimenticandosi che la Città dei Due Mari è stata ed è anche altro. Capitale della Magna Grecia, culla della scuola pitagorica, unica città spartana del mondo; Taranto del Tempio Dorico, delle necropoli greco-romane, delle cripte e degli ipogei, del romanico, del barocco e perfino del gotico. Taranto che non si arrende. L’indubbio e abbagliante splendore della mia terra è per me linfa vitale, è ispirazione costante, è respiro, incondizionato amore che illumina i miei versi e tutto ciò che metto su carta. “Scrivere fa un po’ morire”? La scrittura ha bisogno di affrontare il limite, di vederlo in faccia. Cedere a questa debolezza è la forza della parola scritta. A Taranto, come in qualsiasi altro posto del mondo.
Nel tuo ultimo romanzo “Come nel ventre di una madre” racconti di una persona in coma e scrivi che il coma ricorda il caldo silenzio del ventre materno. Vuoi aggiungere qualcosa?
Il grembo materno è simbolo di protezione e rigenerazione e ho immaginato che Eleonora, nel suo stato di coma, potesse, in qualche modo, sentirne tutto l’originario calore, provarne lo stesso conforto, rientrando, in maniera simbolica, in quel liquido amniotico dove tutto ebbe inizio.
Mi ha colpito leggendo il romanzo questa frase: ” Le cicatrici degli amori che non abbiamo mai compreso e che ci hanno fatto male, quelli che ci hanno fatto vivere d’interrogativi per anni”… Eppure il tuo libro mi è sembrato voler descrivere molto di più di una semplice situazione ospedaliera. Mi sbaglio o dietro c’è il tentativo di descrivere “il funerale delle emozioni” del nostro tempo?
In realtà il mio romanzo non descrive “una semplice situazione ospedaliera” anche se, parte dell’ambientazione, è quella. Uno dei personaggi, Tommaso, ci lavora; Eleonora e la piccola Nadia, in terapia intensiva, sono costrette a rimanerci per un lungo periodo di tempo; Caterina ci muore. “Come nel ventre di una madre” è un romanzo che narra anche i numerosi errori di una società malata dove spesso, i sentimenti e le emozioni, il bisogno “dell’altro”, scivolano nella coltre del silenzio e dell’indifferenza.
Oggi la follia sembra vestire gli abiti della freddezza e della razionalità e la protagonista del tuo romanzo è un personaggio in lotta con i propri demoni. Quali sono state le suggestioni da cui hai tratto ispirazione nella tua carriera poetica e nel tuo romanzo?
In realtà, Eleonora è l’espediente narrativo per raccontare, parallelamente alla sua, le storie di ben altri personaggi, tutti ugualmente importanti nel mio romanzo. Citando Oscar Wilde “Ognuno è il demone di se stesso e rende il mondo il suo inferno”. Da questo inferno, spesso la mia letteratura attinge, necessità interiore, anzi intima, profondissima di scrivere versi e storie.
di Carlo Marino – Giornalista stampa estera