Come in una partita di calcio, che si conclude a reti inviolate, così anche per quanto riguarda la riforma della pubblica amministrazione in Italia possiamo ravvisare un risultato parallelo, cioè a dire che le soluzioni finora adottate in materia dal Governo (evitiamo di citare il Ministro Brunetta per non aggiungere altra pubblicità a quella che si è fatta da solo con le sue battute e i suoi bizantinismi) hanno lasciato intatte le carenze per le quali alcuni esperti economisti da tempo ne hanno indicato i modi e i mezzi per eliminarle. Non vogliamo con questo addossare tutta la colpa all’attuale compagine governativa, perché la necessità di operare una radicale riforma nel settore pubblico risale a periodi remoti del secolo scorso, quando ancora era lontana la discesa in politica di Berlusconi. Il nostro discorso ora si vuole rivolgere a questo Governo, perché pubblicizza un vasto programma di riforme in tutti i campi, non andando però per quella relativa alla pubblica amministrazione nella giusta direzione, in quanto tralascia i problemi essenziali e si limita soltanto ad aspetti marginali, tipo quelli della caccia ai fannulloni e alla giustificazione delle assenze dal servizio. A parer nostro e anche della maggioranza degli italiani, non è con una nuova procedura che definisca la teoria dei doveri degli operatori pubblici che si possa risolvere l’annoso problema, ma con un appropriato raziocinio individuando i veri mali che sono alla sua radice. Vogliamo riferirci alla complessità e vetustà di alcune strutture che alimenta una spesa eccessiva di gestione e che necessita di un efficace loro ammodernamento, nonché alla farragine degli ordinamenti delle carriere alquanto pletorici e non più correlati ai compiti svolti, la cui disomogeneità nei vari comparti condiziona i trasferimenti di personale per quanto attiene alla mancata corrispondenza sia dei livelli stipendiali che delle qualifiche rivestite.
Questi elementi, però, sono da ritenersi complementari alla riforma, perché il nucleo centrale della questione è quello, in aggiunta alla riorganizzazione degli apparati sulla base delle ultime innovazioni tecnologiche, di un effettivo snellimento dei processi produttivi che assicuri per l’utenza un soddisfacente ridotto iter burocratico che oggi per la sua eccessiva lungaggine grava sulla stessa in termini di costi. Ovviamente per ottenere un risultato concreto, è necessario anche dare un assetto più efficiente in merito alla giusta collocazione degli addetti nei ruoli di competenza e specializzazione, assicurando loro un continuo aggiornamento professionale e un adeguamento retributivo che raggiunga i parametri europei dei paesi più progrediti da cui l’Italia si distanzia parecchio. Dobbiamo constatare a questo proposito che non sono di buon auspicio le recenti decisioni assunte dal Governo in tema di impiego pubblico, perché rimangono irrisolte tutte le anomalie denunciate da decenni dai sindacati di categoria, quali la sistemazione dei precari, la riclassificazione e il reinquadramento del personale con l’effettivo riconoscimento dei titoli e delle mansioni esercitate ed, inoltre, una rimodulazione dei criteri di inquadramento e l’ampliamento delle materie di contrattazione per la quale si riconosca con obiettività il pluralismo delle rappresentanze dei lavoratori tale da controbattere qualsiasi strapotere monopolistico. Non c’è dubbio, che al di là di queste poche indicazioni, il discorso va maggiormente approfondito per comprendere l’intero problema in tutti i suoi dettagli.
Infine, una considerazione: l’Italia, nonostante che sia la prima in Europa per il numero di auto posseduto dai suoi abitanti ( circa il 61% ), si trova in fondo alla classifica in fatto di riforme, ancorata al vecchio concetto proverbiale “meglio un uovo oggi che una gallina domani”.