Nelle ombre sempre più scure di una tarda sera di marzo, nel silenzio e nel vuoto desolante di quella piazza colonnata simbolo e cuore del cristianesimo universale, un uomo, solo, vestito di bianco, incede lentamente. Faticosamente sale i gradini del sagrato.
“Non ci siamo fermati – dice Francesco rivolto a Dio – davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”.
Ora, attoniti, segregati nelle moderne caverne che sono le nostre case, in un mondo che è diventato esso stesso una immensa prigione, scopriamo di non essere sani, e le nostre vite si riempiono di un silenzio assordante e di un vuoto angosciante.
Fuori, negli, ospedali, negli ambulatori e nei presidi sanitari, si muovono ed operano, con frenesia e trepidazione, uomini e donne sigillati in tute da “guerre stellari”. Sembrano danzare su quell’invisibile filo che separa la vita dalla morte. Sulle loro spalle la responsabilità di essere il soggetto ultimo su cui poggiano il dolore, le angosce, le paure, le speranze degli ammalati e dei loro familiari.
Da quelle tute bianche emergono, a fine turno, corpi, visi, occhi affaticati e stremati. Sono gli occhi umidi di commozione di chi ha strappato una vita alla morte, gli occhi smarriti di quanti sono passati direttamente dalle aule universitarie alle trincee ospedaliere e che tanto evocano i giovanissimi dell’Italia di Caporetto; gli occhi dolenti di chi avverte l’inadeguatezza delle cure e vive la conseguente frustrazione: “gli occhi asciutti nella notte scura” – per dirla con De Gregori – di chi non si abbandona allo scoramento e guarda al futuro dell’Italia che non ha paura”. Sono i volti stanchi e pensosi dei tanti che, deposto da tempo il camice bianco, hanno risposto con entusiasmo “alla chiamata alle armi”, perché medico lo si è sempre, per tutta la vita. Sono i volti su cui alle lacrime di frustrazione si sovrappongono le lacrime della “pietas” cristiana ed umana per una vita perduta. Lacrime di una umanità dolente. Un pianto antico, sempre nuovo.
Oggi, nell’era Covid, amiamo definirli “eroi”, in un tripudio di lessico patriottico -guerresco: “eroi in trincea”, “guerra contro l’invisibile”, caduti, “rialzare la testa”, luminarie tricolori, orgoglio nazionale e l’immancabile “andrà tutto bene”. Eroi, forse. Certamente, sempre e soprattutto, umani vulnerabili, che fanno appello alla loro parte più resiliente ed a quella più nobile della professione medica che hanno scelto, per far fronte al dolore, alla paura e alla solitudine dei pazienti. E di sé stessi.
Eppure sono gli stessi uomini e donne che, nella recente e ormai perduta “normalità”, erano soltanto “camici bianchi”, “casta”, “élite”, portatori di competenza, professionalità, conoscenza, scienza; valori e virtù questi ormai misconosciuti e negletti. Marginalizzati e decimati dalle scelte politiche, che negli anni hanno impoverito l’intero sistema sanitario. In alcuni casi insultati, oltraggiati, perfino percossi, perché “il sonno della ragione genera mostri”.
E amiamo anche definirli “Angeli”, sublimando il loro lavoro con enfasi di religiosità popolare protettiva.
Ma gli angeli sono immortali. Gli umani certamente no. Molti, tanti, troppi, hanno perso la vita, e la perdono, per onorare quel giuramento di Ippocrate che un giorno, all’ alba della loro vita professionale, pronunciano con consapevolezza, dignità, passione, orgoglio. Sono andati via, falciati da questa “peste” invisibile che come una antica crudele divinità rende “invisibili” i morti che dissemina. Nessun funerale, solo una solitaria benedizione prima della tumulazione. “ Passano l’un dietro l’altro funerali squallidi,vuoti di gente”. Così, nell’antichità latina, Lucrezio narrava, in versi, la peste di Atene. Duemila anni dopo “la solitudine dell’ultimo addio” è sempre la stessa. Cimiteri pieni di morti ma senza vivi che possono onorarli, salutarli. Non c’è il tempo e lo spazio per elaborare il lutto. E’tutto sospeso, anche il dolore. E solo quando le urne potranno essere “confortate di pianto”, solo allora i morti, tutti, potranno davvero morire.
Un giorno anche questa nostra “peste” finirà, come finì la pesta manzoniana spazzata via da un temporale provvidenziale. Siamo qui, con tremula speranza e trepidazione, ad attendere il nostro “temporale salvifico”. Avrà la forma e la sostanza forse di un vaccino, forse di un farmaco. Ne cogliamo i primi segni nelle timide, prudenti affermazioni del mondo scientifico, che in questa ricerca si sta prodigando.
E quando, finalmente, tutto sarà finito, rimossa l’ansia e confinata la paura nel più profondo inconscio, torneremo alla “normalità”, vecchia o nuova che sia, torneremo di nuovo a vivere.
Fino a quando una nuova misteriosa “peste” si abbatterà su di noi. Ed allora, in un sistema sanitario che, si spera, avrà voluto e saputo re-inventarsi, saranno sempre gli Eroi e gli Angeli, di oggi e di domani, ad affrontare quel nuovo invisibile microorganismo acellulare che ci ricorderà, ancora una volta, che forse non è lui il vero distruttore del Pianeta. Siamo noi.
Antongiulio Gherbi