Che fa, concilia? é la domanda di rito del vigile urbano all’automobilista indisciplinato, incappato in una sgradita contravvenzione, ma altrettanto rituale – o quasi scontata, purtroppo – é la risposta di quest’ultimo: no! Con tanti saluti al semplice strumento preordinato ad evitare un contenzioso.
Pensa il malcapitato automobilista intanto a non pagare, vedi mai un condono, una mancata notifica, un errore d’indirizzo che porta alla prescrizione e magari “qualche amico in Comune” che interviene; quello che conta é non riconoscere il torto di cittadino colto in fallo.
L’attitudine ad aggirare le proprie responsabilità o per lo meno di rinviarne il riconoscimento, anche se alla fine esso sarà inevitabile, é il comun denominatore di comportamenti tanto contrari alla civiltà di un Paese quanto diffusi, purtroppo anche nella nostra Pubblica Amministrazione.
La conciliazione, a tutti i livelli e in qualsiasi occasione, presuppone il possesso della disponibilità ad avere fiducia, innanzi tutto, in uno strumento che renda la vita meno conflittuale a beneficio di una comunità più serena e orientata al concreto.
Prevale, invece, nel privato cittadino l’attitudine a non adempiere le proprie obbligazioni, mentre in coloro che rappresentano l’Amministrazione pubblica predomina l’inclinazione al rifiuto nell’assunzione delle responsabilità decisionali connesse alle funzioni svolte.
Entrambi i comportamenti sono ben rappresentati nel detto: e che sono fesso? chi me lo fa fare, se posso procrastinare o devolvere la cosa ad altri?
Ma veniamo alle due novità “contestuali”di cui vogliamo occuparci: la prima é che, nel quadro della riforma della Giustizia, è vicina l’emanazione del decreto legislativo che rende obbligatorio il tentativo di conciliazione preventivo per i processi introdotti a partire dalla primavera del prossimo anno e gli avvocati saranno obbligati ad informare per iscritto i clienti dell’obbligatorietà di una soluzione stragiudiziale della lite affidata ad Organismi arbitrali iscritti in appositi registri; in sostanza, la conciliazione assume la caratteristica di una condizione di procedibilità.
Le materie sono molteplici: risarcimento del danno da circolazione, contratti d’assicurazione, condominio e locazioni, colpa medica, successioni e buon ultima, la diffamazione a mezzo stampa; un allargamento gigantesco se raffrontato alla conciliazione obbligatoria in materia di lavoro dipendente privato e pubblico.
La seconda novità é l’entrata in vigore del “collegato al lavoro” che abolisce l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione davanti alle Commissioni provinciali del lavoro, il quale diventa facoltativo e “integrato a richiesta ed in sostituzione della conciliazione” dalla possibilità di risolvere in via arbitrale la controversia con “decisione secondo equità”; in altre parole, non “secondo il diritto” sia pure nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Si dice, a sostegno della bontà del primo provvedimento sul versante dell’alleggerimento del carico che grava sulla giustizia ordinaria e amministrativa, che circa un milione di cause potrebbe incamminarsi sul sentiero della mediazione, che funzionerebbe da filtro preventivo, rendendo il sistema più rapido, più efficace e meno costoso.
Purtroppo i precedenti di conciliazione obbligatoria ci sono stati, ma sono stati catastrofici negli effetti di riduzione del contenzioso giudiziario in materia di lavoro, tanto più quando una delle controparti é stata una pubblica amministrazione.
Non c’é bisogno di ricorrere a statistiche perché qualsiasi lavoratore pubblico sa che “doveva” rivolgersi alla Commissione provinciale del lavoro prima di iniziare una qualsiasi causa contro l’amministrazione da cui dipende, ma “era matematico” che essa o non si presentasse o facesse intervenire un qualsiasi funzionario solo per dire di no.
Ora il legislatore allarga a dismisura l’area delle materie da assoggettare a soluzione stragiudiziale obbligatoria della lite e ci sorge un dubbio: non avverrà che nasca una quantità di tentativi obbligatori tale da intasare gli organismi di conciliazione appena costituiti, con buona pace della giustizia alternativa efficace?
Quanto alla seconda novità di attribuire – sia pure a richiesta del lavoratore – ad un arbitro il potere di decidere una controversia in materia di rapporto di lavoro a prescindere o in violazione di norme inderogabili di tutela del lavoro stesso, il dubbio che ci assale é che la norma istitutiva presenti gravi profili d’incostituzionalità, tanto più nel pubblico impiego (articolo 97 della Costituzione) ed é quindi destinata ad una sconfitta.
Spesso accade che in una democrazia parlamentare le leggi non brillino per qualità decisionale (e purtroppo anche formale!) ma non trarre lezioni dal fallimento di un mezzo stragiudiziale obbligatorio dopo anni ed anni di mancata resa in termini di costi/benefici e addirittura ampliarne a dismisura il campo di applicazione non può che essere il frutto di superficialità.
Più infido il provvedimento sul ricorso all’arbitrato di equità in materia di lavoro: la volontà politica che lo sorregge, anche se subita da una parte del fronte sindacale confederale, é augurabile che trovi nella parte debole del rapporto di lavoro dipendente – i lavoratori – un totale, consapevole e sprezzante rifiuto.
In questo caso la propensione di una parte dei cittadini a non fidarsi della conciliazione sarebbe da… elogiare: che fa, arbitra? No, che sono fesso?!?