L’Italia, insieme a Malta e Grecia, continua ad essere uno dei Paesi europei con la più bassa componente femminile nell’occupazione.
È impietosa la fotografia fatta da Il Sole 24 Ore riguardo la situazione femminile nel mondo del lavoro in Italia[1]. Nonostante i progressi fatti, il nostro Paese resta lontano dalla media Ue (a 27) dove l’incidenza delle donne occupate sul totale dei lavoratori è del 46,3%.
D’altra parte, se è vero che negli ultimi dieci anni il numero delle lavoratrici è aumentato di quasi un milione, è anche vero che l’incidenza delle donne sugli occupati non supera il 42,2 % e restano comunque grandi le differenze fra il Nord e il Sud del Paese. Basti pensare che le Regioni del Centro e del Nord registrano tutte un tasso di occupazione femminile superiore a quello medio italiano (51,1% nel 2022, 53% a gennaio 2023).
Naturalmente non mancano gli estremi: il Trentino-Alto Adige ha un tasso di occupazione femminile del 66,2%, (il più alto in Italia) mentre in Campania, Calabria e Sicilia, il tasso di occupazione femminile precipita intorno al 30% (qui lavora una donna su tre).
Non a caso proprio il superamento del divario territoriale di genere è uno degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, nell’ambito del quale è stata elaborata la «Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026».
Ma la difficile situazione delle donne nel mondo del lavoro italiano non è solo segnata dai dati relativi all’occupazione, ma anche da quelli relativi alla retribuzione.
In Italia le lavoratrici guadagnano mediamente meno dei lavoratori con tutte le ricadute anche pensionistiche del caso. Le ragioni sono da rinvenire nelle minori ore lavorate nell’anno, nell’ ampia diffusione dei contratti a termine e nella maggiore presenza di donne in mestieri e inquadramenti meno retribuiti.
Più nel dettaglio la presenza femminile risulta decisamente prevalente in settori come la sanità e l’istruzione, ma decisamente più marginale in altri più pagati come la finanza, le assicurazioni, la manifattura. Inoltre l’occupazione femminile si concentra nelle qualifiche più basse: le donne rappresentano il 58,4% del totale degli impiegati, ma soltanto il 21% dei dirigenti.
Si tratta di quei fenomeni che l’INPS nella sua “Analisi dei divari di genere” definisce “segregazione occupazionale di tipo orizzontale e verticale”: la prima (orizzontale) consiste nel fatto che le donne continuano a trovare impiego in un range limitato di settori produttivi e professioni tradizionalmente considerati femminili; la seconda (verticale) consiste nella maggiore concentrazione di donne lavoratrici in determinate qualifiche professionali (qui il riferimento è alle difficoltà che le donne incontrano nell’accesso a posizioni gerarchiche più elevate e/o nelle progressioni di carriera).
Se da un lato l’Istituto di previdenza sottolinea come il crescente accesso a livelli di istruzione più elevati abbia sicuramente contribuito ad una maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro, dall’altro rileva come – nonostante la teorica possibilità di accesso a qualsiasi professione – nella pratica ciò accade raramente; ‹‹le donne lavoratrici, infatti, ancora oggi, trovano lavoro in un range limitato di occupazioni rispetto ai loro colleghi uomini. Le professioni svolte dalle donne, inoltre, hanno per lo più carattere impiegatizio e sono contraddistinte da livelli retributivi più bassi rispetto a quelli percepiti dai lavoratori di sesso maschile (a parità di ruolo ricoperto)››.
Ma ad incidere sulle retribuzioni è anche la larga diffusione del part-time fra le lavoratrici: nel privato il 47,7% delle donne è occupata a tempo parziale (a fronte del 17,4% degli uomini) e le regioni in cui si registrano le quote maggiori di contratti part-time sono, ancora una volta, quelle del Sud (la Calabria con il 64,3% per le donne e 32,4% per gli uomini, la Sicilia con il 63,6% per le donne e il 29,1% per gli uomini, la Puglia con il 58,8% per le donne e 25,82% per gli uomini e la Campania con il 58,1% per le donne e il 28,07% per gli uomini).
Inoltre la dinamica delle retribuzioni femminili è anche segnata dalla frequente presenza fra le lavoratrici, soprattutto più giovani, di contratti a tempo determinato. La discontinuità di questi contratti, spesso inferiori all’anno, determina una minore retribuzione annua complessiva. A titolo esemplificativo si pensi al settore del commercio dove, nel 2022, l’incidenza dei contratti a tempo determinato è stata del 19% per le donne e del 14% per gli uomini.
L’insieme di tutti questi fattori si traduce, con riferimento alle retribuzioni medie annue lorde, in un gap (a sfavore delle donne) fra lavoratrici e lavoratori quantificabile, nel privato, in 7.922 euro annui (-30% rispetto agli uomini) e, nel pubblico, in 9.895 euro annui (-24,6%).
Fra le tante cause di questo gap retributivo un peso importante ha sicuramente il lavoro di cura dei familiari che, purtroppo, continua a gravare soprattutto sulle donne; quest’ultime, in conseguenza di ciò, con più difficoltà rispetto agli uomini possono accettare trasferte o incarichi aggiuntivi che comportano premi di produttività, incentivi monetari o avanzamenti di carriera.
Naturalmente tutte queste disparità hanno anche conseguenze di natura previdenziale: nel 2022 l’importo medio mensile dei redditi pensionistici percepiti dagli uomini è stato di 1.932 euro mentre quello delle donne è stato di 1.416 euro (inferiore del 36%).
Spostandoci nel mondo delle professioni buone notizie giungono con riguardo alla crescita della presenza femminile (ci si avvicina sempre più alla parità con gli uomini) ma, anche qui, resta il divario reddituale: se dal 2007 al 2022 la percentuale di donne iscritte alle Casse professionali è passata dal 30 al 44 per cento, il reddito medio dichiarato dalle professioniste è di 24.871 euro contro i 45.052 euro dei colleghi.
Non più felice la situazione nel mondo universitario dove i dati dimostrano che, se è vero che le donne sono maggioranza nella popolazione studentesca, è anche vero che diventano minoranza quando c’è da fare carriera in ambito accademico: complessivamente il 41,6% dei 76.741 docenti e ricercatori censiti nel 2022 è costituito da donne. In particolare la loro presenza negli atenei cala progressivamente avvicinandosi ai ruoli di “vertice”: si va dal 50,4% delle assegniste di ricerca al 46,3% delle ricercatrici e dal 42% delle professoresse associate al 27% delle ordinarie.
di M. Davide Sartori
[1] V. Il Sole 24 Ore del 04.03.2024 – n. 63 (pp.2-4)