La definizione di totalitarismo fu coniata dagli storici e politologi del XX secolo per riferirsi a quei regimi, che miravano non soltanto ad imporre la loro volontà e visione sul piano politico, ma a pervadere la società nel suo complesso, fino a giungere ai settori più intimi e personali della vita dei cittadini.
La definizione si sposa perfettamente sia con un totalitarismo di destra quale fu il nazionalsocialismo, che con lo stalinismo sovietico; assai controverso, invece, il riconoscimento dell’etichetta di totalitarismo per il regime fascista.
Per tentare di fornire un riscontro, vorrei cercare di mettere a confronto, evidenziandone analogie e differenze, il regime instaurato da Mussolini con il nazismo hitleriano, lasciando poi il lettore libero di formarsi un’opinione. Ho scelto di ricorrere a questo termine di paragone assumendo le innegabili affinità ideologiche, che caratterizzarono i due sistemi politici.
Se ci soffermassimo solo sugli aspetti più immediati ed esteriori è indubbio che concluderemmo per una sostanziale analogia, visto che in entrambi i casi parliamo di regimi liberticidi, che esaltavano il concetto di nazione con ampio ricorso a miti e credenze risalenti al passato (come il culto della romanità fatto proprio dalla retorica fascista o quello della razza nordica professato dai nazisti); altri tratti comuni, agevolmente rilevabili, sono gli apparati repressivi e propagandistici che miravano all’allineamento delle masse e all’eliminazione (violenta) di ogni forma di dissenso, unitamente alla figura carismatica di vertice (il Duce ed il Führer), oggetto di un autentico culto della personalità, che finiva per sconfinare in una sorta di deificazione del “capo”.
Questi tratti, però, non possono esaurire una corretta ed approfondita analisi storica, che deve necessariamente spingersi su ulteriori filoni di indagine.
Partendo dal momento genetico, ambedue i regimi arrivarono al potere a fronte della crisi dello stato liberale ottocentesco, incapace di dare una risposta efficace alla nascita della moderna società di massa, con il rischio, concretizzatosi dopo la Grande guerra, che un tale vuoto potesse essere colmato dall’avvento di un regime comunista, sul modello di quello andato al potere in Russia (poi URSS) dopo la rivoluzione d’Ottobre. Non a caso, l’anti bolscevismo era uno dei più importanti vessilli sia del fascismo che del nazismo, determinante per guadagnare loro il sostegno (anche economico) di importanti centri di potere (pensiamo agli industriali, ai finanzieri, ai grandi proprietari terrieri), preoccupati per la crescita dei consensi in favore di partiti e forze politiche, che incitavano apertamente alla rivoluzione proletaria. Nel caso della dottrina nazista, fin da subito, si insinuò un ulteriore elemento: il mito della superiorità razziale e l’antisemitismo, che sarebbe stato abbracciato da Mussolini solo più avanti (a partire dal 1937-1938) e che risulta invece assente – al di là di qualche voce isolata – nell’ideologia fascista originaria.
Dedichiamo solo un brevissimo cenno alle modalità di presa del potere, sul quale mi riservo di tornare in un’altra sede: si sente spesso affermare che Mussolini ed Hitler giunsero al potere vincendo le elezioni, il che è vero solo in parte e limitandosi all’aspetto meramente formale. Il trionfo elettorale, se e quando ci fu, venne conseguito ricorrendo ad illegalità e violenze di ogni tipo, circa le quali basterebbe leggere i resoconti parlamentari dell’intervento alla Camera del deputato socialista Giacomo Matteotti, all’indomani della vittoria elettorale fascista del 1924. Se in Germania non ci fu una denuncia analoga dopo le elezioni del 1933, fu soltanto perché tutti i maggiori esponenti dell’opposizione si trovavano già agli arresti o avevano avuto lo stesso e tragico destino dell’On. Matteotti (e di tanti altri come lui, pensiamo a Piero Gobetti o Giovanni Amendola).
Si è fatto cenno alla volontà, comune ai due regimi, di pervadere la società nel suo insieme delle nuove dottrine politiche e ideologiche. Colgo l’occasione per fare una rapida precisazione in merito al razzismo nazista: benché quest’ultimo rappresentasse una componente essenziale del pensiero hitleriano, ciò non deve far pensare che chiunque votasse per la NSDAP fosse un convinto antisemita. Non voglio dire che mancassero i fanatici sostenitori delle teorie razziali, ma mi sentirei di affermare che per molti tra coloro che ne appoggiarono l’ascesa politica (pensiamo ai gruppi di potere dei quali abbiamo fatto cenno) influirono ben altri fattori, quali l’anticomunismo e la disponibilità a non intaccare le posizioni di forza. Un discorso assolutamente analogo può essere fatto per quanti sostennero Mussolini, con l’aggiunta che l’ideologia fascista era assai più sfumata, spesso oggetto di molti aggiustamenti “in itinere”.
A tal proposito, non può certo dirsi un caso che i due regimi, pur cancellando ogni spazio di libertà ed autonomia delle forze sindacali (le organizzazioni di regime tutto fecero, fuorché tutelare gli interessi delle classi lavoratrici), non intaccarono minimamente le ragioni dei potentati, che li avevano tanto generosamente sostenuti, approvando misure economiche e riforme organiche in linea con i loro desiderata. Con questo non voglio affermare che i due regimi fossero “al servizio” dei poteri forti, visto che non mancarono dissidi e dissapori (per esempio riguardo la guerra e la decisione mussoliniana di intervenire nel conflitto del 10 giugno 1940), ma è indubbio che vi furono fasi di intesa e collaborazione, perlomeno fin quando le cose andarono “bene”. Il peso delle strutture sociali e tradizionali (pensiamo ai latifondisti del Mezzogiorno o, come vedremo, alla Chiesa cattolica) fu, probabilmente, più forte in Italia che in Germania, limitando di fatto le aspirazioni totalitarie del fascismo.
Un elemento di distinguo tra i due regimi riguardava sicuramente gli assetti istituzionali e, come accennavamo, il ruolo (e peso) della Chiesa in Italia.
Hitler fu nominato Cancelliere (capo del governo) il 30 gennaio 1933, ma dall’agosto dell’anno successivo, dopo la morte del Capo dello Stato Maresciallo Paul Von Hindenburg, poté riunire nella sua persona anche quest’ultima carica, divenendo l’unico centro del potere in Germania. Mussolini non ebbe mai questa posizione, in quanto l’Italia rimase sempre una monarchia, al vertice della quale era posto il Re Vittorio Emanuele III (comandante supremo delle forze armate). Il sovrano, perlomeno sulla carta, era sovraordinato al Duce e, per quanto sia molto controverso il ruolo del “Re Soldato” durante il ventennio, è un dato di fatto che, forte di tali prerogative, fu lui a destituire Mussolini dopo la fatidica seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, l’unica e la sola che abbia mai contato veramente qualcosa. In Germania un simile scenario non era verosimile: un Hitler Presidente non avrebbe mai potuto chiedere le dimissioni dell’Hitler Cancelliere.
Per quanto concerne la Chiesa, al di là del Concordato del 1929 (uno sostanzialmente analogo fu firmato nel 1933 con la Germania nazista), è indubbio che quest’ultima esercitò in Italia (rispetto al Terzo Reich) una forte influenza, pure sul terreno della coscienza collettiva, facendo ampio ricorso alle sue ramificazioni organizzative e territoriali (azione cattolica, diocesi, parrocchie), contrastando così il totale assorbimento della società, a cominciare dai più giovani. In merito alla politica razziale del regime, senza entrare nel merito dei “silenzi” di Papa Pacelli, perfino i maggiori detrattori riconoscono che la Chiesa e la società civile tentarono di contrastare gli eccessi più brutali, messi in atto dai burocrati più ottusi ed asserviti, senza per questo dimenticare i tanti che (purtroppo) approfittarono dell’occasione per arricchirsi o semplicemente per dare sfogo alle loro peggiori inclinazioni.
Un capitolo sul quale il fascismo si distanziò dal Terzo Reich – mi sia consentito di dire per fortuna, non certo per ascrivere un merito al regime, ma pensando agli orrendi crimini perpetrati contro tanti poveri innocenti – furono i programmi di “eutanasia” contro i disabili, a cominciare dai più piccoli. Dobbiamo dimenticare il significato attuale del termine “eutanasia”, in questo caso parliamo di uno sterminio premeditato e scientificamente attuato contro persone, diversamente abili, la cui unica colpa era (così scrisse Hitler in persona in una lettera autografa del 1939) di condurre “vite indegne di essere vissute”. In Italia nulla di tutto ciò fu mai concepito, così come il varo della legislazione razziale – una terribile onta della nostra storia recente – non preludeva certamente all’eliminazione fisica delle “razze inferiori” (senza per questo dimenticare i tanti che si misero al servizio dei nazisti durante la RSI).
Si è molto discusso se la legislazione razziale del 1938 fosse frutto di una scelta autonoma di Mussolini o una sorta di “doveroso ossequio” verso il nuovo alleato nazista. Quest’ultima spiegazione, lungi dal rappresentare un’attenuante, viene spesso utilizzata per alleggerire la coscienza di molti; in realtà studi recenti dimostrano, al contrario, che si trattò soprattutto di un indirizzo politico voluto dal regime per favorire una maggiore e più efficace irreggimentazione delle masse, con l’obiettivo di cancellare il mito degli “italiani brava gente”. In realtà, per archiviare quest’ultima credenza auto assolutoria, sarebbe sufficiente ricordare quel che gli italiani hanno fatto nelle colonie o durante la guerra d’Etiopia, oppure, come dicevamo prima, all’atteggiamento di molti dopo il varo delle leggi razziali.
Nel rapporto con il mondo della scienza e della cultura, al di là della comune volontà di controllo e subordinazione delle istituzioni educative al regime (accompagnata dalla creazione delle organizzazioni giovanili per inquadrare ideologicamente le “nuove leve”), è indubbio che il fascismo ricercò sempre un modus vivendi (pensiamo all’istituzione dell’Accademia d’Italia), che effettivamente gli procurò importanti consensi (pensiamo a Luigi Pirandello o Guglielmo Marconi), mentre il regime nazista adottò una politica assai più repressiva (per colpire le componenti “giudaiche e massoniche”), che costrinse molti a prendere la via dell’esilio (un nome per tutti: Albert Einstein).
Volgendo lo sguardo al “dopo”, va detto che, per quanto possa suonare oggi paradossale, non sono state poche le eredità dei due regimi. Gran parte della legislazione e delle riforme amministrative varate dal fascismo (con l’eccezione di quelle più liberticide e/o ideologicamente orientate) sopravvissero e furono inserite nel nuovo assetto repubblicano e democratico: pensiamo alla riforma scolastica (voluta da Giovanni Gentile), ai codici civile, penale e di procedura, al cosiddetto parastato, agli stessi Patti Lateranensi. Ciò si verificò in misura inferiore nelle due Germanie del dopoguerra, vuoi per la peculiare divisione del Paese in due tronconi ideologicamente contrapposti, ma soprattutto perché il nazismo era rimasto al potere per un periodo di tempo minore (dodici anni, sei dei quali in periodo bellico). Se un fatto accomuna l’Italia e le due Germanie (parliamo anche di quella democratica) del dopoguerra è la permanenza al loro posto di tanti tra coloro che si erano messi al servizio del regime, senza badare troppo alle ragioni individuali. Si trattò, in estrema sintesi, di scelte di realpolitik connesse alla situazione internazionale del dopoguerra ed alla divisione del mondo in due blocchi antitetici, per quanto ai contemporanei possa far “storcere il naso” immaginare (e qui parliamo di fatti storici, non di ipotesi astratte) un agente di polizia che aveva servito nei ranghi delle “forze speciali”, reintegrato negli (o mai estromesso dagli) apparati di sicurezza dei nuovi stati.
di Paolo Arigotti