Imprese, comunità, istituzioni
Dal 3 al 6 giugno si è tenuta a Trento la sedicesima edizione del Festival dell’Economia, che anche quest’anno ha riscosso un grande successo di pubblico, seppure con le nuove modalità imposte dalla situazione pandemica. L’evento si è caratterizzato come uno straordinario fenomeno digitale con milioni di connessioni al sito, 1 milione e 300 mila soltanto nell’ultimo giorno, e quasi 30 mila persone che quotidianamente hanno assistito alle dirette streaming delle varie conferenze. Anche il pubblico nelle sale non è mancato, più di 3.700 persone infatti hanno seguito in presenza le varie conferenze ed oltre 150 giornalisti accreditati, tra testate locali e nazionali.
L’edizione 2021 ha voluto essere un inizio di normalità che guarda al futuro, un dibattito approfondito sul mondo post-covid, che ha visto il contributo in quattro giornate di Premi Nobel come Joseph Stiglitz , Michael Kremer, Jean Tirole, Michael Spence, Paul Milgrom ed esperti di fama internazionale tra i quali ricordiamo Thomas Piketty, Branko Milanovic, Minuoche Shafik, Beata Smarzynska Javorcik, oltre ad esponenti del mondo dell’impresa, della cultura e delle istituzioni, come Ignazio Visco, Sabino Cassese, Luigi Zingales, Roberto Cingolani, Salvatore Rossi, Paola Severino, Enrico Giovannini tra gli altri.
Direttore scientifico dell’evento è stato Tito Boeri che ha voluto porre al centro del dibattito lo Stato: la pandemia da coronavirus ha spinto il settore pubblico, per garantire la salute di tutti, ad entrare in modo preponderante nella nostra quotidianità, provocando una ipertrofia, che ha toccato campi riservati in passato esclusivamente all’iniziativa privata.
La fine della pandemia può essere l’occasione, sostiene Boeri, per ridisegnare i confini dello Stato, rafforzandone la presenza dove ce n’è maggiore necessità e progettandone la ritirata altrove. La ricerca di vaccini contro il Covid-19 ha beneficiato di un forte sostegno pubblico e senza questi finanziamenti probabilmente non sarebbe stato possibile bruciare i tempi per ottenerne di efficaci. Le amministrazioni pubbliche sono state sottoposte a forti pressioni nell’anno trascorso, uno stress-test che deve interrogarci su come renderle più efficienti, ma anche trarne la consapevolezza che finanziare i servizi, come quello socio-sanitario, è imprescindibile da parte di tutti, pagando le tasse e sostenendo i settori vitali. Laddove vi sono stati fallimenti nell’intervento pubblico, l’esperienza negativa può essere messa a frutto, non meno di quella positiva. Ad esempio rivedendo il federalismo all’italiana, che ha visto continui litigi tra Regioni e Governo centrale nei mesi più bui della pandemia, disorientando tanto i cittadini quanto le amministrazioni chiamate a gestire l’emergenza.
La riflessione, che Boeri presenta nella sua introduzione al Festival, tocca anche il rapporto con la burocrazia che diventa l’immancabile bersaglio del malfunzionamento della macchina pubblica. Ma le cose stanno davvero così? Il sospetto è che spesso sia frutto delle invasioni di campo della politica, che non si fida della tecnostruttura e mette una lunga serie di paletti al suo operato. Che ruolo gioca in tale contesto quel ceto intermedio che si colloca fra i politici e la tecnostruttura, non rispondendo al giudizio degli elettori né al vaglio delle competenze richieste dalle diverse amministrazioni, figure apicali che possono essere rimosse ad ogni cambio di governo secondo lo spoils system?
I vari dibattiti che si sono succeduti nelle giornate possono essere suddivisi in quattro aree tematiche:
- Uno Stato più efficiente
- Come uscire dalla crisi
- Investimenti per la ripartenza
- Il futuro dopo la pandemia
Tutti i relatori hanno dato un contributo di grande interesse e i diversi interventi sono disponibili sul sito www.festivaleconomia.it, rappresentando una grande opportunità di approfondimento per cittadini e specialisti del campo.
Vale la pena di evidenziare alcuni apporti alla kermesse, che costituiscono un’utile guida per una lettura più consapevole del tempo attuale.
Branko Milanovic, economista serbo-statunitense, noto per i suoi studi sulla distribuzione del reddito e la disuguaglianza, parla di capitalismo dell’elefante. Già economista della Banca Mondiale, attualmente professore alla City University di New York, Milanovic presenta le sue riflessioni sul capitalismo, che sono sistematizzata nel recente libro “Capitalismo contro Capitalismo”. Nel mondo attuale si possono individuare due rami del capitalismo: quello occidentale, il “capitalismo liberale” degli Stati Uniti e dell’Europa, che sta scricchiolando sotto il peso della crescita dell’iniquità, e quello di stampo orientale, il “capitalismo politico” di Cina, Russia e altri Paesi. Attualmente il capitalismo, quale sistema economico-sociale caratterizzato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, è l’unico modello di produzione vincente. Milanovic ha evidenziato che l’andamento dei redditi mondiali negli ultimi vent’anni mostra che i redditi dei super ricchi si stanno impennando come la proboscide di un elefante. Sebbene la disuguaglianza tra i Paesi sia diminuita, aumenta quella nei Paesi dove regna sovrano il capitalismo liberale. A fronte quindi di un assottigliamento del divario mondiale fra Paesi, nella nostra parte del mondo è esplosa una disuguaglianza di cui avevamo perso memoria. Branko Milanovic conia un neologismo per descrivere questa società fatta di una nuova élite da un lato e potremmo dire di tutti gli altri dall’altra. Omoplutia è la condizione, inedita nella storia del capitalismo, di questa classe di privilegiati, anche se forse è ormai improprio parlare di classi nella stratificazione che si è andata delineando nelle due ultime decadi. È una élite fortemente resiliente ai cicli economici e alle crisi finanziarie, poiché possiede una ricchezza che si produce su di un doppio fronte, dal lavoro e dalla rendita finanziaria. Nello studio condotto con il matematico Yonatan Berman, l’economista mette in risalto che la percentuale di chi si trova nel 10% più ricco per redditi da lavoro è al tempo stesso nel 10% più ricco per redditi da capitale, raddoppiando in meno di quarant’anni, passando dal 14% del 1980 al 27% del 2017, con una forte accelerazione a partire dalla crisi del 2009. Mentre le classi medie occidentali sono state le maggiori perdenti nella globalizzazione dei mercati e dei capitali, il nuovo sistema capitalistico, che Milanovic definisce liberal-democratico, si è andato definendo anche come frutto di un cambiamento culturale sul valore attribuito al lavoro e all’istruzione. Coloro che sono all’apice della scala sociale contano su di un sistema di istruzione esclusivo e costoso, che apre condizioni di lavoro fortemente remunerative ma accanto a ciò questa élite può contare anche su di un solido capitale finanziario. Del resto stipendi elevatissimi consentono investimenti altrettanto elevati e redditizi, soprattutto se in paesi come gli USA le tasse sui rendite e redditi molto alti sono state progressivamente tagliate. L’omoplutia rende ancora più difficile la mobilità sociale anche per il fenomeno dell’homogamy o assortive mating, ovvero un omopluta sposa un altro omopluta, si sceglie il proprio partener dello stesso livello sociale, culturale ed economico. Per rimettere in funzione l’ascensore sociale per Milanovic serve emancipare la politica dalla morsa dei ricchi, puntando su una forte tassazione sull’eredità e sul rilancio dell’istruzione pubblica, da rendere più accessibile ma anche migliore di quella privata e capace di far ottenere posti di lavoro meglio pagati.
Un altro intervento rilevante è stata la conferenza dell’economista Thomas Piketty, autore del fortunato testo Il capitale nel XXI secolo, che riprende i suoi studi sulla concentrazione e sulla distribuzione della ricchezza negli ultimi 250 anni. Per Piketty la sfida che si pone per i Paesi occidentali si chiama Cina e per poterla vincere è necessario il passaggio al socialismo partecipativo. Richiamandosi al suo ultimo e monumentale saggio Capitale ed ideologia, Piketty sollecita a ripensare l’intero modello economico delle nostre società in modo più equo e sostenibile dopo la pandemia. Lo sviluppo dello Stato sociale e la progressività fiscale hanno rappresentato un grande successo del mondo occidentale. Per il futuro l’economista francese ritiene che serva un socialismo partecipativo, che difenda i diritti dei lavoratori e favorisca la redistribuzione della ricchezza, dato che oggi la disuguaglianza estrema deprime lo sviluppo e la società nel suo complesso. Motori di questa evoluzione sono da un lato il cambiamento climatico e dall’altro il regime cinese, per Piketty un sistema oppressivo che i Paesi capitalisti non devono sottovalutare. Gli elementi cardine del socialismo partecipativo dovrebbero essere la tassazione progressiva e la condivisione del potere nelle piccole aziende tra proprietà e lavoratori, di cui un esempio è l’esperienza tedesca della Volkswagen. Bisogna per Piketty tornare a usare la leva fiscale (reddito, patrimonio o successioni) secondo una regolamentazione a livello sovranazionale. Se tutto questo può sembrare utopistico, Piketty mostra con i suoi studi storici di lungo periodo che in realtà il mondo occidentale si muove da oltre un secolo in tale direzione, malgrado le battute d’arresto sopraggiunte con le crisi degli ultimi decenni.
Il ritorno allo Stato, tema di quest’anno del Festival, dopo decenni di ridimensionamento dall’epoca reaganiana, è già iniziato negli Usa, come riferisce l’analisi del giornalista Federico Rampini, con la crisi del 2008 attraverso un ripensamento, partito dalla Cina, dei modelli economici. La nuova America di Biden vuole tornare alle origini della sua storia di socialdemocrazia. La ripresa, contrariamente a molte previsioni che davano catastrofica la situazione economica a causa della pandemia, è già iniziata lo scorso autunno. La manovra di 1900 miliardi di dollari messa in atto dal Presidente Biden ha cominciato a dare i frutti sperati, soprattutto per il ceto medio e i più poveri. Le resistenze a questa azione dell’amministrazione pubblica non mancano, ma Biden ha già preannunciato che vi sarà un’ulteriore manovra di 4 mila miliardi per consolidare il nuovo percorso intrapreso.
Il premio Nobel Joseph E. Stiglitz, affiancato da colleghi come l’indiana Jajaty Gosh e l’economista Rohinton Medhora, ha tirato le fila del rapporto sulle conseguenze economiche della pandemia. Stiglitz ha sintetizzato sostenendo che il mondo si salva solo se si agisce unitariamente. Ci si sta muovendo nella direzione giusta ma anche i privati devono fare la loro parte. Anche sulla ristrutturazione del debito l’io dovrà essere sostituito da un noi e sarebbe auspicabile la costituzione di un tribunale internazionale, che si occupi di fallimento per rendere omogenea le legislazioni su questo tema. Il neoliberismo per Stiglitz ha fallito e non è riuscito a creare quella società armoniosa che auspicavamo. Questo sistema ha fallito sia economicamente che socialmente perché le disuguaglianze sono enormi, così come le divisioni sociali e lo sfruttamento. Il professor Stiglitz immagina un mondo post-neoliberista, nel quale ci sia più ecologia istituzionale e si contengano gli intenti del profitto. Il libero mercato da solo non ha saputo regolare la società, la distribuzione del reddito e i rischi ambientali. Per l’economista sono necessari nuovi paradigmi socio-economici ed una inversione di rotta repentina, perché ci stiamo muovendo verso l’economia del futuro basata sulla conoscenza. Per Stiglitz la conoscenza deve restare un bene pubblico, perché se i privati produrranno conoscenza, cercheranno di limitarla e controllarne i benefici. Per i governi quindi sarà sempre più importante ed indispensabile avere un ruolo nell’economia della conoscenza. Ha rimarcato Stiglitz che proprio nella vicenda dei vaccini abbiamo avuto un’anteprima dei possibili risvolti. La conclusione del premio Nobel è stata la necessità di contrapporre al neoliberismo del passato un ritorno allo Stato, concetto che centra in pieno il titolo dell’edizione 2021 del Festival.
Luigi Zingales, docente di finanza all’Università di Chicago, nell’incontro in Sala Depero, ha parlato della relazione tra senso civico e capacità di intervento degli Stati. Non è sufficiente che uno Stato abbia regole, soldi e persone competenti, servono anche una condivisione di valori con la gente. Se questo viene meno, lo Stato non riesce a funzionare in maniera effettiva. Insegnare, trasmettere ed ampliare tali valori non può che iniziare dall’insegnamento nelle scuole. Tradizione scolastica e leadership hanno un peso molto importante per formare il senso civico nella popolazione, che si può costruire attraverso l’insegnamento dell’educazione civica e trovando le capacità per trasferire un sistema valoriale corretto.
Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha evidenziato che già prima della pandemia lo Stato era molto presente in Italia, grazie al suo 45% di spesa pubblica sul totale del PIL. Ma con la pandemia serve un sistema meglio organizzato per guidare e gestire la complicata transizione economica, ecologica, sociale e digitale. Per il governatore Visco è necessario uno “Stato responsabile”, lungimiranza e flessibilità. Gli Stati purtroppo hanno spesso una visuale limitata dalla visione parziale dei governi. Il cambiamento, fortissimo oggi, va quindi guidato. Ignazio Visco ha rilevato che le imprese italiane sono ancora troppo piccole e hanno investito poco in innovazione, mirando a contenere le spese e ridurre il costo del lavoro. I giovani sono scoraggiati e non si sono formati adeguatamente. È un dato preoccupante, che ci pone indietro in Europa, quello di 3 milioni di giovani italiani tra i 15 e i 34 anni, Neet, ovvero non impegnati nello studio, nella formazione o nel lavoro. Per Visco qui lo Stato deve essere presente, non con sussidi di lungo periodo ma dando sostegno temporaneo e formazione. Il Governatore ha anche annunciato che la Banca d’Italia si doterà di una Carta di Sostenibilità per spiegare i propri investimenti nel settore green. La Banca d’Italia sta già acquistando titoli green, in modo da essere parte del processo di riduzione delle emissioni di Co2. Visco ha escluso un ritorno dello Stato nelle banche centrali nazionali, ritenendo che l’indipendenza serva ad evitare l’inflazione. Il problema fondamentale, ha concluso Visco, è che in Italia è mancata la crescita: è aumentato il debito ma non il prodotto interno lordo.
L’importanza indiscussa degli avanzamenti tecnologici nel ridisegnare le società ci sollecitano a riflettere sul loro uso da parte del potere statale e politico. Secondo il premio Nobel Jean Tirole bisogna guardare con attenzione a quanto sta accadendo in Cina dove è in atto un sistema di social scoring ovvero di valutazioni sociali, che attraverso i dati presi dalle piattaforme digitali permette al governo cinese di controllare i propri cittadini. Occorre quindi vigilare affinché tale strumento non venga esportato in altri Paesi. Per Tirole, di fronte ad evoluzioni preoccupanti della tecnologia, come quella delle valutazioni sociali, non possiamo rinunciare al nostro futuro digitale, ma dobbiamo affrontare le sfide che ci sono, per creare un sistema di norme intelligenti che protegga la privacy. Per anni abbiamo vissuto in questo ambito in una condizione di laissez faire ma ora c’è un maggior intento regolatorio da parte dello Stato, poiché i cittadini hanno diritto di sapere quello che viene fatto con i loro dati.
Concludiamo con la proposta dell’economista Julia Cagé per una legge che tolga l’informazione dalle proprietà, dalle logiche di mercato e che venga finanziata attraverso voucher a disposizione di ogni cittadino. L’informazione dovrebbe diventare un bene comune, così come l’Università, consentendo agli organi di informazione di essere indipendenti. Julia Cagé da anni studia e propaganda il tema di un giornalismo di qualità, libero e quindi utile alla democrazia. Nel villaggio globale nel quale viviamo l’etica dell’informazione è un tema di grande rilevanza, tenuto conto delle conseguenze spesso anche imprevedibili dei flussi della comunicazione e dell’informazione.
di Rosaria Russo