Cristoforo Colombo avvistò l’isola di Cuba nel corso del suo primo viaggio verso le “Indie”, il 27 ottobre 1492, rivendicandone il possesso a nome dei Reali di Spagna (all’epoca ufficialmente Regno di Aragona, Castiglia y Leon). Agli inizi del XVI secolo nacquero i primi insediamenti, tra i quali L’Avana (fondata nel 1515). Gli indigeni, circa 100mila persone, furono praticamente sterminati nell’arco di un secolo, dopo essere stati ridotti al rango di schiavi dai coloni europei. Gli spagnoli e i creoli (cioè i bianchi nati nelle Americhe) divennero la classe dominante, proprietari delle terre e degli schiavi. Quando gli autoctoni stavano oramai scomparendo decimati da stenti e malattie, Cuba, al pari delle altre colonie di oltreoceano, fu ripopolata dagli schiavi provenienti dall’Africa; ancora oggi i loro discendenti rappresentano una componente importante della popolazione isolana.
L’indipendenza da Madrid giunse con diversi decenni di ritardo rispetto agli altri Paesi dell’America continentale e fu preceduta da due guerre combattute tra il 1868 ed il 1878 (prima guerra d’indipendenza) e un’altra nei successivi due anni (piccola guerra, 1869-1870), che videro emergere la figura di Josè Martì, considerato dagli stessi castristi il padre della patria; era un politico e giornalista, le cui idee – di matrice nazionalista e anticolonialista – influenzarono non poco la rivoluzione guidata da Fidel circa sessant’anni più tardi. L’intellettuale morì nel corso della piccola guerra, lasciando, assieme alla sua impronta nella storia del Paese, un monito circa il pericolo di una dominazione statunitense, che avrebbe preso il posto di quella spagnola, ricorrendo al pretesto del sostegno all’indipendenza dell’isola. Alla fine del XIX secolo la potenza spagnola era ormai un lontano ricordo, Cuba era uno degli ultimi possedimenti coloniali di Madrid, difenderla era un’impresa superiore alle sue forze. Sicuramente questo fattore favorì un rapido processo d’indipendenza, proclamata col sostegno americano nel 1898; il casus belli venne dall’affondamento di una nave militare di Washington nella baia dell’Avana: la propaganda attribuì la responsabilità agli spagnoli e tanto bastò agli statunitensi per appoggiare la dichiarazione di sovranità, dopo una breve guerra durata circa quattro mesi. Gli americani – come acutamente previsto da Martì – allungarono subito le mani sull’isola, insediandovi un governo di occupazione e promuovendo l’elezione di un’Assemblea costituente, che varò la prima Costituzione repubblicana nel 1901. La sovranità cubana, in realtà, incontrava importanti limitazioni, prima fra tutte il cosiddetto emendamento Platt (dal nome del senatore USA Orville Platt) in base al quale il nuovo governo doveva rispettare e mantenere in vigore le leggi volute dal governo di occupazione, oltre che assoggettarsi ad una serie di vincoli pervasivi, come concordare le più importanti decisioni politiche con Washington (per esempio in materia di difesa o sanità); oltretutto al governo americano era rimessa una generale facoltà di intervento qualora fossero in pericolo l’indipendenza, la libertà o i diritti fondamentali dei cubani. Nello stesso periodo furono concesse agli USA alcune basi militari nell’isola, tra le quali quella di Guantánamo, ancora oggi controllata dagli americani, al centro di molte polemiche per presunte violazioni dei diritti umani ai danni dei detenuti della locale prigione. Come di tutta evidenza, si trattava di formule e prescrizioni talmente vaghe da fare dell’isola una sorta di protettorato americano. Detto in altri termini, Cuba più che l’indipendenza, aveva solo ottenuto di cambiare padrone, come comprovato dalle continue e pesanti intromissioni nella vita politica, economica e sociale dell’isola, che acutizzarono l’insofferenza della gente comune verso il potente vicino, e fomentarono sentimenti di ripulsa all’origine della rivoluzione del 1959. I vari Presidenti e governi succedutisi prima della rivoluzione castrista (il primo fu Tomás Estrada Palma, eletto nel 1902) furono eletti in competizioni fortemente influenzate dagli USA oppure frutto di colpi di stato, che ebbero un tratto in comune: favorire gli interessi americani e fomentare la corruzione, mettendo sempre in secondo piano lo sviluppo dell’isola e le istanze della popolazione. Il livello di democraticità dei governi dell’Avana, come si comprende agevolmente da queste brevi note, era nella migliore delle ipotesi molto discutibile, quando non si trattò di veri e propri regimi dittatoriali, come quello del generale Gerardo Machado (1925-1933) e quello del sergente Fulgencio Batista (poi autoproclamatosi colonnello e capo di stato maggiore dell’esercito), che praticamente avrebbe dominato l’isola – con il sostegno determinante degli USA e salvo brevi parentesi – col pugno di ferro a partire dal 1934 e sino al 1959, occupando lui stesso la carica di Capo dello stato o insediandovi uomini di sua fiducia, per il tramite di elezioni “addomesticate”: quando nel 1952 si paventò la vittoria di un candidato presidente sgradito a certi interessi (specialmente americani) fu prontamente organizzato un nuovo golpe, che portò Batista alla presidenza. Gli americani ne favorirono l’ascesa al potere soprattutto perché il militare, di tendenze nazionaliste e militariste e con una spiccata propensione verso l’arricchimento personale, aveva spazzato via il governo progressista guidato da Ramón Grau San Martín, rimasto al potere neppure un anno, promotore di riforme a favore dei lavoratori, la cui maggior “colpa” era stata probabilmente quella di tentare di spezzare il tradizionale predominio statunitense. Batista mise fine a qualunque progetto “autonomista” e si schierò incondizionatamente con gli USA, permettendo nel corso della Seconda guerra mondiale che Cuba fosse utilizzata come base navale e aerea di Washington. La politica di Batista favorì probabilmente solo i conti personali del dittatore e della sua cerchia ristretta: furono vendute (o meglio svendute) molte industrie e proprietà terriere, Cuba divenne negli anni Cinquanta una sorta di isola vacanze per gli statunitensi, con una crescita esponenziale del gioco d’azzardo e della prostituzione (sulle quali misero le mani molte organizzazioni criminali americane). Le condizioni della popolazione peggioravano costantemente, come il debito pubblico, mentre qualunque voce di dissenso veniva duramente repressa, a cominciare dai comunisti, contro i quali fu creato un ufficio ad hoc (BRAC). Tra i movimenti insurrezionalisti che combattevano il regime inefficiente e corrotto di Batista, figurava quello guidato da un avvocato di nome Fidel Castro, figlio di un proprietario terriero. Il 26 luglio 1953 egli si era reso protagonista di un fallito tentativo di assalto alla caserma Moncada di Santiago di Cuba, che costò a Castro la prigione e l’esilio in Messico (1955). Durante l’esilio, Castro ebbe modo di riorganizzare le sue forze e avviò la collaborazione con un altro rivoluzionario, il medico argentino Ernesto Guevara (poi soprannominato il “Che”, pare per via della sua abitudine di intercalare molte frasi con tale espressione, equivalente dell’italiano “hai capito?”). Castro e i suoi (appena 82 uomini in tutto) sbarcarono clandestinamente a Cuba a bordo della piccola Granma nel dicembre 1956, dopo alcuni scontri con le forze regolari si rifugiarono sui monti della Sierra Maestra, nella parte meridionale dell’isola, da dove cercarono di guadagnare il sostegno della popolazione, sempre più insofferente verso il regime di Batista, ricorrendo anche alle trasmissioni clandestine di Radio Rebelde. Gli americani vedevano nel movimento castrista (chiamato 26 luglio in omaggio all’assalto della Moncada) un pericolo per i propri interessi, ravvisando una matrice marxista e rivoluzionaria, decidendo pertanto di confermare il sostegno a Batista. Il regime si fece sempre più sanguinario, con frequenti incarcerazioni e uccisioni sommarie di detenuti e oppositori politici. Castro divenne interprete del sentimento popolare di avversione verso la repressione e la corruzione dilagante, guadagnando alla sua causa consensi sempre più ampi. Progressivamente avanzò con le sue truppe popolari, sempre più consistenti per effetto delle adesioni spontanee, fino a giungere alla decisiva battaglia di Santa Clara, il 30 dicembre 1958, che spodestò Batista – costretto ad una fuga repentina verso Santo Domingo – e alla nascita del nuovo governo rivoluzionario. Tra i primi atti ufficiali del nuovo Esecutivo, guidato da Castro e con Guevara ministro dell’Industria, vi fu una grande riforma agraria, che arginò il latifondismo e redistribuì la terra ai contadini, accompagnata da una campagna di alfabetizzazione della popolazione, che avrebbe portato i cubani ai più elevati livelli d’istruzione del continente latino. Perfino uno storico americano, Alejandro de la Fuente, ha riconosciuto che “i programmi economici e sociali promossi dal governo cubano hanno prodotto dei risultati eccezionali per l’epoca”. Questi primi provvedimenti furono meno impattanti di quanto non si potrebbe pensare, lasciando in essere diverse e importanti proprietà terriere. Castro in questa prima fase politica mantenne relazioni ufficiali con Washington e non etichettò il suo regime come marxista. Nonostante questo, gli interessi americani nell’isola ne furono seriamente colpiti, tanto che le pressioni esercitate sul presidente John Fitzgerald Kennedy da parte di esuli e industriali, indusse il governo USA ad organizzare la fallimentare spedizione verso la Bahia de los Cochinos (Baia dei Porci) dell’aprile 1961, con l’intento di rovesciare Castro. Il fallito tentativo produsse due importanti conseguenze: Castro ruppe con gli USA (il 25 aprile fu decretato da Washington l’embargo ancora oggi è in vigore, sia pure attenuato) e si avvicinò all’Unione Sovietica, dando un’impronta apertamente socialista e marxista al suo governo. A differenza di Castro, che rimarrà per tutta la vita legato alla rivoluzione cubana, il Che compirà una scelta del tutto diversa, ispirata ad una visione rivoluzionaria internazionalista. L’esperienza governativa, protrattasi sino al 1965, lo avrebbe visto fautore di un ambizioso (e non riuscito) processo di industrializzazione e nazionalizzazione; in quell’anno egli rassegnò le dimissioni, per tornare a combattere in altri teatri (Africa e America latina): sarebbe stato ucciso nel 1967 in Bolivia, per mano dei militari governativi, assieme ai suoi compagni di lotta. Le sue spoglie riposano a Santa Clara, in un mausoleo dedicatogli dal governo de L’Avana. Il rifiuto degli onori di governo e la scelta rivoluzionaria hanno sicuramente contribuito ad alimentare il suo mito, nonostante non manchino ombre sulla sua figura, a cominciare da certe tendenze autoritarie. Non è chiaro quali fossero i rapporti personali con Castro al momento delle sue dimissioni: gli storici sono divisi tra chi sostiene che si fossero seriamente incrinati e chi parla invece di un profondo rispetto reciproco, mai venuto meno nonostante visioni non sempre condivise. Per effetto dell’avvicinamento a Mosca, si originò la cosiddetta crisi dei missili, che nel 1962 portò il pianeta sull’orlo del conflitto nucleare. I sovietici, difatti, avevano installato nell’isola dei missili puntati contro gli USA, come ritorsione verso le analoghe installazioni degli americani in territorio turco. Per prevenire ulteriori rischi, Kennedy ordinò il blocco navale verso Cuba, impedendo a qualunque nave di raggiungere l’isola: di fatto ci sarebbe stato il fondato pericolo di uno scontro tra la marina USA che pattugliava le coste e quella sovietica diretta verso Cuba. Il mondo si salvò grazie ad un compromesso: Kruscev accettò di ritirare le sue installazioni (senza neppure consultare Castro), in cambio dell’impegno americano a fare altrettanto in Turchia, e di rinunciare ad ogni proposito di invadere Cuba. I rapporti con l’URSS si fecero sempre più stretti, Mosca acquistò lo zucchero cubano e concesse numerosi prestiti. Tra le politiche da sempre perseguite da Castro, figura la piena eguaglianza tra cittadini bianchi e di colore, a lungo discriminati per ragioni storiche collegate al periodo schiavista. Già nei primi anni Ottanta l’aspettativa di vita e i livelli di istruzione tra le due etnie erano praticamente eguali. I grandi cambiamenti del 1989, con il crollo dei regimi comunisti dell’Europa orientale e la stessa fine dell’URSS (1991) hanno creato molti problemi a Cuba. La fine degli aiuti sovietici – Mosca era alle prese con ben altre questioni – e il persistente embargo americano hanno precipitato l’isola in una profonda crisi, mentre gli indubbi progressi in campo sociale (Cuba ha il sistema sanitario più avanzato dell’America Latina) ed educativo, non sono mai stati accompagnati da aperture sul fronte delle libertà politiche e di espressione. In effetti, lo stesso partito comunista cubano non partecipa, a differenza di quel che avviene per esempio in Cina, alla gestione del potere e le candidature per le elezioni sono proposte da assemblee popolari (i cubani parlano di “democrazia apartitica”). Molti osservatori, a cominciare da coloro che erano convinti che la caduta del comunismo in Europa avrebbe travolto anche Castro, si sono chiesti come il regime sia potuto sopravvivere, nonostante le misure politiche anticastriste portate avanti dalle varie Amministrazioni USA, a cominciare da quella di George Bush Jr., nei primi decenni del nuovo millennio: ad esempio i vincoli al commercio dello zucchero o le limitazioni alle rimesse e al turismo. La risposta a questo interrogativo risiede in una serie di fattori. L’atteggiamento USA, lungi dal deprimerlo, ha rinsaldato il fronte interno e la propaganda di regime ha ampiamente sfruttato un certo antiamericanismo di fondo che permea la società. Inoltra, L’Avana ha adottato una serie di riforme (liberalizzazione del dollaro, apertura all’economia di mercato per le piccole attività, incentivazione del turismo, maggiori spazi per gli investitori stranieri), che accompagnate dalla scoperta e sfruttamento di giacimenti petroliferi e al rinnovato rapporto con Caracas (ne parleremo tra poco) hanno consentito all’isola di reggere piuttosto bene alle pressioni di Washington. Per quanto nel tempo diverse di queste misure abbiano registrato degli importanti dietro front, magari con finalità propagandistiche, il consenso al regime non è mai venuto meno, pure grazie a quei servizi sociali che, sia pur ridotti, sono sempre garantiti. Un’altra importante leva è rappresentata dal sostegno dell’etnia di colore, da sempre riconoscente a Castro per averla elevata socialmente e culturalmente. A non mutare, come dicevamo, è la repressione del dissenso, fatto di incarcerazioni e giudizi sommari (talvolta con esiti infausti) per gli oppositori, quantomeno fino al momento in cui Castro era in vita. Un dato per tutti, ancora nel 2004 si parlava di circa 100mila detenuti politici, una percentuale tra le più elevate del mondo, ove rapportata alla popolazione complessiva. A Cuba non esiste libertà di stampa, media e giornali sono sottoposti ad una rigida censura di regime, per scongiurare ogni istanza contro rivoluzionaria. La televisione cubana, fin quando è rimasto in sella, ospitava dibattiti televisivi nei quali parlava uno solo: Fidel Castro; l’apertura a candidature indipendenti agli inizi del secolo nelle elezioni non ha mai modificato sostanzialmente il quadro politico. Nel 2014 il presidente USA Barack Obama ha annunciato l’intenzione di revocare l’embargo, compiendo nel 2016 una visita ufficiale nell’isola (seguita ad un altro viaggio dal forte valore simbolico, quello del 1998 di Papa Giovanni Paolo II; successivamente anche Benedetto XVI visitò l’isola). Fidel Castro, il lìder maximo, è morto a 90 anni nel 2016. L’anno seguente è divenuto presidente il fratello Raul, mentre nel 2018 – dopo il suo ritiro a vita privata – gli è succeduto il giovane Miguel Diaz Canel. Castro avrebbe rigettato fino all’ultimo ogni istanza di riforma (specie politica), salvo alcune piccole limature in ambito economico (come per esempio la liberalizzazione delle piccole attività artigianali o l’impulso dato al turismo). Come accennavamo, la fine dell’aiuto e sostegno di Mosca hanno inferto un duro colpo al regime, mettendo in discussione perfino i risultati di quelle riforme sociali tanto care ai sostenitori di Castro. Tra le accuse rivolte al regime quella di aver favorito (perlomeno consentito) traffici illeciti, a cominciare dalla droga, per auto finanziarsi. La stessa morte del leader storico ha sicuramente impresso una svolta epocale, perché la scomparsa della sua figura carismatica – che tanto ha pesato nella sopravvivenza del regime (si è parlato non a caso di Castrianesimo) – sta portando e porterà con sé una profonda trasformazione. Un passaggio importante verrà dalla definizione dei rapporti con gli USA, dopo le aperture di Obama e i passi indietro compiuti da Trump (che ha ampliato nuovamente l’embargo), sul punto bisognerà valutare le scelte della nuova Amministrazione Biden, pressata dall’importante comunità di esuli (oltre un milione di persone) che vivono per lo più in Florida, a meno di 100 miglia dall’isola. Secondo molti osservatori, Washington potrebbe portare avanti una strategia attendista, magari limando alcune posizioni radicali assunte da Trump, in pratica assistendo in silenzio al progressivo indebolimento del fronte interno, sempre attenta al pericolo di consistenti flussi migratori che potrebbero seguire al tracollo del regime cubano. La pandemia con la contrazione dei flussi turistici ha colpito duro. Il governo del presidente Diaz Canel ha recentemente approvato, specie dopo le vigorose manifestazioni di protesta dell’Avana delle settimane scorse, una riforma che permette la creazione di imprese private e una importante liberalizzazione circa la politica monetaria: in pratica nell’isola potranno insediarsi senza limitazioni imprese che occupino fino ad un massimo di 100 dipendenti. Dicevamo delle proteste a Cuba: a causarle sono state soprattutto il carovita, l’emergenza sanitaria e l’assottigliarsi dei servizi essenziali (a cominciare da quelli sanitari). Un fattore critico, stavolta indipendente dagli USA – tradizionalmente additati come la causa di ogni male – è la crisi del Venezuela e delle sue forniture petrolifere, accompagnate da importanti acquisti di prodotti cubani, grazie al rapporto preferenziale instauratosi col regime di Hugo Chavez (al potere dal 1999 al 2013). La gravissima crisi economica e sociale del Venezuela ha causato un autentico crollo dell’interscambio commerciale, stimato nella misura del 72% tra il 2014 e il 2019, un gap molto difficile da colmare. Cuba potrebbe forse sperare nel sostegno di Russia e Cina, in funzione anti USA? Qualche apertura indubbiamente c’è stata: Mosca ha condonato il 90% del debito cubano nel 2014 (circa 35 miliardi di dollari) e Pechino ha fatto lo stesso tre anni prima, cancellando totalmente il debito (6 miliardi). Negli ultimi anni la Russia e la Cina hanno consolidato il loro interscambio commerciale con l’isola, quest’ultima nazione è il secondo partner per importanza dopo il Venezuela, manifestando una particolare attenzione verso l’industria chimica e farmaceutica locale. Una cosa, però, deve essere chiara. Né Mosca né Pechino si vogliono far carico di condizioni favorevoli paragonabili a quelle offerte a suo tempo dal Venezuela, come acquisto di prodotti o servizi a prezzi maggiorati, ma soprattutto nessuna delle due potenze vorrebbe mai sobbarcarsi i costi (di gran lunga superiori ai benefici) di un sostegno massiccio a Cuba in funzione antiamericana: detto in altre parole, il gioco non vale la candela.
di Paolo Arigotti