Il 28 settembre scorso si è tenuto a Roma il convegno della NATO Foundation dal titolo “Balkan Perspectives 2020 – The Fight for a Timely Inclusion”. Da lungo tempo l’Unione Europea è impegnata nel tentativo di stabilizzare una regione la cui storia è interconnessa con la sua. Geograficamente circondati dagli stati dell’Unione Europea, i Balcani occidentali hanno una rilevanza strategica per l’Unione non soltanto in sbocchi commerciali, in termini di movimento di merci e di persone, ma anche per la sua sicurezza e stabilità interne. La violenta dissoluzione della Jugoslavia rappresentò una minaccia esistenziale per l’intero progetto europeo, mettendo in chiaro che la prosperità e la sicurezza dell’Unione non potevano sottovalutare la sicurezza dei Balcani.
L’Unione Europea non ebbe altre opzioni se non quella di un’azione più incisiva nella regione, diventando l’attore principale per la transizione democratica dell’area ed il suo approccio si contraddistinse, attraverso la cosiddetta “stabilisation through integration” (Stabilizzazione attraverso l’integrazione), basata su un forte sostegno ai singoli paesi che adottavano le riforme sociali ed economiche richieste, per poi essere candidati ad entrare nell’Unione. Tale approccio portò al Processo di Stabilizzazione e Associazione (SAP) ed al Patto di Stabilità del 1999.
Con la Dichiarazione di Salonicco del 2003, l’Unione Europea ufficializzò la sua “politica della porta aperta” nei confronti dei Balcani occidentali, definendo tutti i paesi della regione, come potenziali candidati all’accessione nel momento in cui avrebbero soddisfatto i cosiddetti “Criteri di Copenhagen”. Tuttavia, mentre la Croazia riuscì ad attuare tali criteri, ottenendo lo status di candidato nel 2004 ed accedendo all’Unione nel 2013, per gli altri paesi la situazione si presentò più problematica.
L’Unione Europea decise di andare oltre la Dichiarazione di Salonicco, attraverso un maggiore coinvolgimento nei Balcani occidentali e diventando così un attore importante per la sicurezza. Nel 2003 fu lanciata, su richiesta del Governo di Bosnia-Erzegovina la prima missione Common Security and Defence Policy, denominata EUPM (European Union Police Mission), per sostenere la creazione di un apparato giuridico, in linea con gli standard europei ed internazionali. Successivamente, l’Unione varò la sua prima operazione militare, Concordia, nella Macedonia Settentrionale (denominata all’epoca FYROM Former Yugoslav Republic of Macedonia) per salvaguardare lo status quo dell’Accordo Quadro di Ohrid.
L’impegno dell’UE per la stabilizzazione dei Balcani occidentali non è diminuito nel corso degli anni. Al contrario, dal 2004 la missione EUFOR Althea ha sostituito la NATO Stabilisation Force (SFOR) in Bosnia-Erzegovina, contribuendo al mantenimento della pace nel paese. Dal 2008 l’UE sta gestendo la più importante missione civile, EULEX Kosovo, che offre sostegno alle istituzioni giuridiche per il raggiungimento dell’efficienza, dell’affidabilità e della multietnicità dell’applicazione del diritto, nel pieno rispetto degli standard internazionali e delle migliori pratiche europee. La “Prospettiva europea”, offerta dalla politica della porta aperta e dall’impegno dell’UE nella regione, ha facilitato la rapida ripresa economica dalla devastazione del passato ed ha incoraggiato le riforme economiche ed istituzionali. L’Albania, la Macedonia settentrionale, il Montenegro e la Serbia hanno ottenuto lo status a pieno titolo di candidati ed hanno iniziato il processo negoziale per accedere all’Unione. Nonostante tali sviluppi, però, nel corso del decennio passato l’integrazione dei Balcani occidentali nell’Unione ha subìto una battuta d’arresto, sia a causa di fattori endogeni che esogeni, i quali ne hanno minato la stabilità: in primis la crisi economica che ha colpito l’Europa dal 2009 e che ha avuto effetti particolarmente seri in tali paesi economicamente fragili, amplificando la disoccupazione giovanile e arrestando la crescita economica. Tali fattori hanno esacerbato i problemi endogeni, quali la persistente corruzione ed hanno riattizzato le rivalità del passato. La stabilità dell’intera regione è diventata più fragile e l’Unione dovrebbe continuare i suoi sforzi per costruire la stabilità attraverso l’integrazione e, a tale proposito la Strategy for the Western Balkans, pubblicata dalla Commissione UE nel 2018, sembra un buon punto di partenza, anche se la propensione verso l’allargamento, di recente, sembra essersi affievolita. Se l’UE non avrà più un piano percorribile per stabilizzare i Balcani, vuol dire che altri attori si occuperanno di risolvere i problemi lasciati irrisolti dagli Europei.
I Balcani sono nati dal collasso di due imperi, quello asburgico e quello ottomano, e ciò va tenuto presente quando si pensa a quei paesi così vicini e così lontani, così come, per esempio, alla speciale relazione che la Serbia ha sempre mantenuto con la Russia. Nei Balcani c’è anche la presenza di un islam tollerante che, però, nel corso della guerra in Bosnia, ha mostrato purtroppo l’aspetto crudele del suo efferato radicalismo. Oggi, è presente, ultima arrivata nella regione per la Belt and Road Initiative, ma non per questo di minor importanza, la Repubblica Popolare Cinese che tende a riempire ogni possibile vuoto economico e che, per esempio, rappresenta il più grande stato donatore di fondi per la Serbia tanto che, a tale proposito, qualche opinionista si è spinto a chiedersi se la Serbia non sia già un paese assistito dalla Cina. È evidente che sia Russia che Cina auspicano la destabilizzazione di questa regione, perché in tal modo verrebbero a mettere in crisi un importante versante della NATO.
Tuttavia, il potenziale della Repubblica Popolare Cinese nell’area dipenderà dai futuri contratti economici e dagli accordi di cooperazione, che firmerà con i singoli paesi balcanici. In mancanza di investimenti occidentali sicuramente la Cina interverrà in tali paesi che necessitano di infrastrutture, diversificazione dell’offerta energetica e di molto altro ancora.
di Carlo Marino