Il progressivo avvicinamento tra Russia e Cina, la cosiddetta partnership strategica, è fatto notorio: la questione delle relazioni bilaterali e tale argomento, con una particolare riferimento alla crisi in Ucraina, hanno formato oggetto dell’incontro del 14 marzo, a Roma, tra il Consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan e il direttore dell’Ufficio per gli affari esteri del Comitato Centrale del Partito comunista cinese Yang Jiechi. A testimoniare la delicatezza delle questioni sul tappeto la durata del meeting: sette ore. Gli USA, con ogni probabilità, avrebbero voluto coinvolgere Pechino nelle sanzioni decise contro Mosca, per lo meno sfruttare la crisi per allontanare le due potenze, ma la Cina si è mantenuta ferma nella sua politica di neutralità rispetto al conflitto in corso, con un atteggiamento definito ambiguo dagli statunitensi. In realtà, la linea adottata è fedele al tradizionale orientamento cinese di tenersi fuori da situazione di conflitto aperto, privilegiando sempre e comunque i propri interessi economici e geopolitici. Per questa ragione, se sui punti principali – rafforzare la cooperazione bilaterale, migliorare e rafforzare le relazioni nel reciproco rispetto (già al centro dell’incontro virtuale Biden-XI dello scorso novembre) – le parti si sono mostrate fondamentalmente d’accordo, sulla questione ucraina Pechino ha semplicemente ribadito le posizioni già espresse, pur mostrando comprensione per le preoccupazioni di Mosca. In merito alla crisi ucraina, gli americani hanno espresso forte preoccupazione per l’alleanza tra Russia e Cina, minacciando questa ultima con sanzioni economiche in caso di supporto all’invasore. Per la verità, nei giorni precedenti l’incontro è stato lo stesso portavoce del ministero degli Esteri cinese a smentire seccamente ogni notizia circa presunti aiuti economici o militari da parte del suo governo, forse diffusa per mettere in imbarazzo la Cina popolare e costringerla ad una presa di posizione. La Cina, come ribadito sempre dal ministero degli Esteri, propende per una soluzione pacifica della vertenza, rifiutando però di aderire alle sanzioni contro Mosca; quest’ultima decisione lascia aperti molti margini di manovra per Mosca, specialmente per limitare le conseguenze delle sanzioni volute da americani ed europei. A parte considerazioni di tipo economico, di sicuro ha influito sulla decisione cinese di tenersi fuori la consapevolezza che appoggiare una certa linea politica, favorevole alle ragioni degli indipendentisti, finirebbe per ritorcerglisi contro, tenuto conto delle istanze autonomiste presenti nel suo territorio (Xinjiang, Tibet e Hong Kong). Quanto al dubbio, sollevato da taluni osservatori, che la Cina potrebbe approfittare della crisi ucraina per un colpo di mano con Taiwan, tale opzione resta per il momento (e per fortuna per gli equilibri mondiali) del tutto priva di concretezza. Yang Jiechi, parlando della “provincia ribelle”, si è limitato a ribadire che la questione investe la sovranità ed integrità territoriale del suo paese; nel comunicato finale è stata confermata la linea tradizionale della “unica Cina”: in pratica gli USA riconoscono solo il governo popolare di Pechino, pur intrattenendo rapporti politici ed economici con Taipei (come, del resto, fa la stessa Cina).
di Paolo Arigotti