In questo periodo basta accendere la televisione, leggere un quotidiano o consultare il web per sentir parlare di aumenti vertiginosi nelle bollette energetiche (luce e gas): il Codacons ha già fatto i conti e prevede una spesa aggiuntiva di 711 euro medi a famiglia, da settembre a fine anno. E non parliamo, purtroppo, di un qualcosa di transitorio, visto che lo stesso amministratore delegato della Shell, Ben van Beurden, che di questioni energetiche se ne intende, parla di una crisi destinata a protrarsi, in tutta Europa, per diversi anni. Quando si affronta l’argomento e le cause, la prima cosa che viene in mente, come ovvio, è lo scoppio del conflitto in Ucraina iniziato lo scorso febbraio, anche perché è proprio la Federazione guidata da Vladimir Putin a detenere il primato mondiale delle riserve di gas, a lungo il più importante fornitore di oro blu per buona parte del continente europeo, Italia e Germania in primis. La volontà politica espressa più volte dai governi occidentali e dalla stessa Commissione europea, difatti, vede nella riduzione (e potenziale azzeramento) della dipendenza energetica da Mosca non solo una scelta razionale, ma un modo per limitare un’importante fonte di finanziamento per la cosiddetta “operazione militare speciale”; giova rammentare, però, che per quanto il ruolo di Mosca si sia ridotto nei mesi scorsi – vedi il caso italiano, che ha visto subentrare l’Algeria come primo fornitore – il flusso di gas non è stato interrotto e neppure è stato oggetto di sanzioni verso Mosca, nella consapevolezza che una decisione radicale e repentina non sarebbe stata economicamente e socialmente sostenibile per molti paesi (compreso il nostro). La linea europea, peraltro, non è stata univoca; basti ricordare il caso dell’Ungheria (paese membro anche della NATO) che ha negoziato con Mosca nuove forniture, bypassando gli inviti della Commissione e quello della Serbia, che come noto non fa parte della UE, né del Patto Atlantico. Lo stesso presidente della Confindustria italiana, Carlo Bonomi, pur invocando la riduzione della dipendenza energetica dalla Russia, ha dovuto riconoscere l’importanza delle forniture, domandando nei giorni scorsi misure adeguate da parte del governo, pena una contrazione economica che per la Banca d’Italia potrebbe significare – nell’eventualità di un’interruzione degli approvvigionamenti dalla Russia – un crollo del PIL (5 o 6 punti) e una spirale inflazionistica difficilmente gestibile. Su posizioni analoghe la Confcommercio, che denuncia il rischio di chiusura per migliaia di aziende e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Aggiungiamo che il lievitare dei costi energetici causa una minore competitività delle nostre aziende rispetto a concorrenti internazionali meno soggetti ai rincari; così, leggiamo su l’Unione Sarda, il quotidiano più importante della Sardegna, come le bollette degli esercenti siano praticamente triplicate, con tutte le conseguenze che si possono immaginare, senza escludere – nei casi più gravi – il rischio licenziamenti e chiusura. Ancora, c’è l’aumento dei fertilizzanti, cagionato proprio dall’impennata del gas, di cui parla l’associazione del settore Fertilizer Europe, i riflessi sui costi dei trasporti, visto che perfino alcuni dei più noti vettori del low cost già annunciano la fine dell’era dei biglietti a dieci euro; un altro gioiello della nostra manifattura, il settore tessile, annuncia probabili trasferimenti della produzione in Turchia (dove l’energia costa molto meno), con la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Non meno preoccupanti le previsioni delle associazioni dei consumatori. Se il Codacons, come accennavamo, parla di significativi aggravi sui bilanci familiari, l’Adiconsum denuncia che i cittadini sono spesso costretti a tagliare perfino sui generi di prima necessità e sulle spese sanitarie. Il Governo ha già varato una serie di misure di aiuto e sostegno, come la riduzione degli oneri di sistema, l’abbattimento dell’IVA sulle bollette per le aziende e la possibilità di un rateizzo degli oneri, mentre sono allo studio nuovi provvedimenti – invocati dalle forze politiche impegnate nella campagna elettorale – che non escludono scelte radicali, come l’anticipazione dello spegnimento degli impianti di riscaldamento e/o l’abbassamento del livello medio delle temperature in case o uffici, il “coprifuoco” per locali ed esercizi, mentre già si paventano rischi per la vendemmia e persino per la prossima stagione sciistica (le vetreria di Murano hanno già annunciato la chiusura dei forni). Diversi esercenti, nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica, hanno preso l’abitudine di esporre le bollette in vetrina e sui social, mentre le stesse famiglie – già colpite dagli aumenti dello scorso anno – potrebbero andare incontro a brutte sorprese dal prossimo ottobre. L’Adiconsum parla di incrementi del 100 per cento rispetto al trimestre precedente, secondo le stime elaborate dall’ARERA (l’autority del settore energetico), rilevando – rispetto agli aumenti già intervenuti – che “L’intervento tampone del Governo ha contenuto gli aumenti che sarebbero stati del +65% per la luce e +59,2% per il gas, riducendoli a +55% e +41,8% rispettivamente”. Un’altra questione che ha avuto un certo risalto sui media concerne i presunti extraprofitti realizzati dagli operatori del settore, proprio grazie agli aumenti dell’ultimo anno, cui ha fatto seguito la decisione politica (sostenuta praticamente da tutti i partiti) di imporre una tassazione ad hoc – inclusa nel cosiddetto Decreto Ucraina – la quale però, stando alle prime proiezioni, avrebbe avuto un riscontro assai meno importante rispetto a quello stimato dall’Esecutivo (circa 11 miliardi); a fine agosto, la Codacons, come si legge su un comunicato ufficiale: “Sul caso della tassa sugli extra-profitti non versata allo Stato dalle società energetiche incombe oggi una denuncia del Codacons, che si rivolge alla Procura della Repubblica di Roma e alla Corte dei Conti affinché sia aperta una indagine volta ad accertare eventuali reati penali e contabili.” Tutte le misure descritte (comprese quelle fiscali, come il credito d’imposta o i bonus energia) e quelle allo studio, però, non saranno, con ogni probabilità, in grado di arginare gli aumenti: secondo alcune stime servirebbero dai 60 agli 80 miliardi di euro, cifra assolutamente insostenibile per l’erario. Si dovranno, pertanto, percorrere altre strade, che inevitabilmente passeranno per il contenimento dei consumi, tanto che qualcuno già parla di austerity in stile crisi energetica dei primi anni Settanta. Abbiamo esordito riportando la communis opinio secondo la quale gli aumenti e la crisi economica ed energetica sarebbero, nella sostanza, riconducibili al conflitto ucraino. Ora, se nessuno discute che questo ultimo abbia avuto ripercussioni importanti, addebitare unicamente a questo fattore gli aumenti sarebbe per lo meno riduttivo: occorre guardare il film nella sua interezza, senza limitarsi al singolo fotogramma. Giusto per rinfrescare la memoria a chi ci ascolta, i primi e corposi aumenti delle bollette (stimati intorno al 40 per cento, senza le misure contenitive varate dal governo) si sono registrati ai primi di ottobre 2021, quando alla guerra in Ucraina (tranne Giulietto Chiesa, che nel 2015 parlava de: “La crisi d’Ucraina, l’inizio della Terza Guerra Mondiale”- www.youtube.com/watch?v=sDPVIljawNU) nessuno faceva il benché minimo cenno. In un pezzo pubblicato il 16 febbraio 2022 (sempre prima dell’inizio dell’iniziativa militare russa) l’economista Guido Salerno Aletta scriveva: “Che ci sia qualcosa di strano, in questi straordinari aumenti del prezzo dell’energia, elettricità e gas, lo sospettano tutti. Benzina e gasolio sono aumentati, è vero, ma molto meno delle bollette.”, mentre altri analisti aggiungevano che un ruolo importante negli aumenti lo abbia avuto il varo del cosiddetto green deal europeo (altrimenti detto transizione ecologica), che prevedendo (in teoria) l’abbandono di tutti gli idrocarburi, gas incluso, avrebbe ingenerato inevitabili ripercussioni (il classico “effetto annuncio”) sul mercato dell’oro blu. Inoltre – come ricorda lo stesso Aletta – il mercato internazionale del gas, che a differenza di quello petrolifero, si caratterizza per un numero di fornitori relativamente esiguo, in grado pertanto di influenzare pesantemente il mercato, specie quando subentrino ragioni di ordine geopolitico, come gli equilibri economici e commerciali tra Occidente da un lato e Russia e blocco alternativo dall’altro, sui quali – piaccia o meno – si sta giocando (e si giocherà) la vera partita degli approvvigionamenti energetici; ed i “problemi” tra Russia e Occidente non nascono col conflitto del 2022, sono iniziati anni fa, come minimo (se non prima) nel 2014. Assodato, pertanto, che la guerra in Ucraina è senz’altro una circostanza aggravante, ma non la sola, bisognerebbe comprendere anzitutto come si forma il prezzo del gas. Questo ultimo – che tra parentesi ha registrato un’impennata colossale, con un rialzo solo nell’ultimo anno del 530 per cento e un costo che ha toccato i livelli record di 330 euro per MWH – si forma nella borsa di Amsterdam, il centro nodale europeo degli scambi. Ci perdonerete se faremo qualche breve considerazione su quelli che possiamo considerare i principi basilari (oseremmo dire “terra terra”) dell’economia: in un mercato quando la domanda sale e l’offerta cala il prezzo aumenta, ragion per cui la contrazione delle forniture russe, che indubbiamente negli ultimi mesi c’è stata – passando da 150 miliardi agli attuali 30-40 miliardi di metri cubi, a fronte di consumi a livello europeo stimati intorno ai 450 – genera importanti ripercussioni; se a questo volessimo aggiungere, per restare all’ABC, le ondate speculative che si mettono in moto nei periodi di crisi il gioco è fatto e parliamo un fenomeno che è più facile contrastare a parole, che nei fatti. Presentati in questi termini, i fatti sembrerebbero dare ragione a chi addebita i rialzi al conflitto ucraino, ma la realtà è molto più articolata, tanto è vero – come dicevamo – che la spirale inflazionistica è partita ben prima del febbraio 2022. A parte la ripresa degli scambi dopo la crisi pandemica (quando la contrazione dei consumi aveva fatto scendere i prezzi), occorre considerare, come scrive Startmag, che la borsa di Amsterdam, il cosiddetto Ttf (Title Transfer Facility) “è un mercato virtuale (un hub) per lo scambio del gas naturale. Insieme al Nymex (New York Mercantile Exchange) e all’Ice (Intercontinental Exchange) di Atlanta […] è uno dei principali mercati di riferimento per lo scambio del gas in Europa e in Italia.” Il prezzo di mercato attuale si forma sul principio della cosiddetta utilità marginale: in pratica, leggiamo dal portale Qualenergia.it, “Si tratta del meccanismo in uso in gran parte delle borse europee per fissare ogni giorno il costo dell’elettricità, facendo incrociare la domanda stimata e l’offerta da parte dei vari produttori. Una volta decisa la prima, ogni produttore indica quanta elettricità può fornire e a che prezzo: entrano a far parte del mix di quel giorno tutte le offerte più economiche, fino a coprire quanto richiesto.”; in pratica il prezzo viene determinato dall’incrocio tra domanda e offerta in sede di ultima transazione, secondo un meccanismo nato per consentire la liberalizzazione del mercato energetico, garantendo l’accesso al mercato di un maggior numero di operatori, superando così la condizione di sostanziale monopolio preesistente (in Italia a lungo detenuta da ENI e consociate). Il problema, come scrivevano ai primi di agosto Paolo Becchi e Giovanni Zibordi sul blog di Nicola Porro, sono le modalità con cui concretamente si forma questo prezzo: “Questo, senza menzionare che per la stragrande maggioranza delle aziende sono già mesi che devono pagare da 10 a 15 volte più dell’anno scorso il gas naturale. Perché il prezzo di riferimento nei contratti che fa Eni è quello del mercato dei derivati in Olanda, detto “TTF” […] Come stiamo provando a documentare, qui e in altre sedi, questa è una truffa gigantesca. Perché in realtà la quantità di gas scambiata su questo mercato dei derivati è molto piccola. Il 90 per cento del gas non viene comprato su questo mercato, ma fornito da Gazprom, Algeria e Qatar a prezzi contrattati tempo fa. Sul “TTF” si scambiano circa 7mila megawattora – MWH – al giorno.”, aggiungendo che “L’opinione che alcune società che rivendono il gas russo stiano facendo extra profitti eccezionali è molto comune sul mercato finanziario.”, concludendo con un’affermazione alquanto pesante: “L’opinione però che abbiamo espresso in forma divulgativa per il pubblico di un giornale è condivisa come abbiamo accennato sopra anche dai commentatori di Bloomberg e da Ceo di società che consumano molta energia, ad esempio nelle piastrelle o cemento o acciaio. E cioè che, quando il prezzo all’ingrosso aumenta di dieci volte, ma quello che fa pagare Gazprom invece aumenta molto ma molto meno, qualcosa non quadra. E simultaneamente vedi Eni che aumenta di 7 volte i profitti. Ci sembra quindi utile che si sollevi questa domanda che nessuno ha il coraggio di porre: l’Eni quanto lo paga il gas? Non quello scambiato sul mercato “TTF” (che è una quota minima) ma tutto il resto?” In altre parole, cercando di riassumere le affermazioni degli autori e senza entrare nel merito, quel che si sostiene è che il prezzo finale sarebbe così alto perché il gas viene venduto tutto ai prezzi del GNL, il quale costa molto di più (e va soggetto a maggiori speculazioni) rispetto a quello naturale proveniente da Russia o Algeria, e assumendo questa ricostruzione (noi non entriamo nel merito) le cause degli aumenti avrebbe radici assai più profonde del conflitto stesso. Gli aumenti, qualunque costruzione si voglia accogliere (dinamiche del mercato, speculazioni, ragioni geopolitiche, conflitto, e via dicendo) però ci sono, e a questo punto viene da chiedersi cosa si possa fare per limitare i danni. Tra le proposte avanzate, vi è quella di sganciare (tecnicamente disaccoppiare) il prezzo dall’energia da quello del gas (è una misura allo studio in Italia e in Germania), per impedire che gli aumenti dell’uno si riverberino sull’altro, anche se l’esperto Gianclaudio Torlizzi (anche lui scrive per Startmag) ha espresso le sue riserve in recente tweet, al pari di altri analisti, che la ritengono al più un palliativo, piuttosto che una soluzione. Sulla stessa linea le reazioni all’altra proposta che sta circolando, la fissazione di un prezzo massimo per il gas (cd. price cap), sia a livello nazionale, che europeo (con tutti di dubbi che si possono sollevare circa la realizzabilità dell’intesa), onde evitare che le dinamiche del mercato finiscano per penalizzare le attività produttive e i consumatori finali. I critici, difatti, ritengono che così facendo si correrebbe il rischio di assistere ad una contrattura delle forniture da parte dei paesi produttori, scoraggiati dai minori margini di guadagno. Quanto al fissare un limite in ambito nazionale, questo meccanismo – applicato in Europa da Spagna e Portogallo – si traduce, in sostanza, in interventi di compensazione operati dal governo, che paga alle aziende energetiche l’eventuale differenziale negativo tra prezzo di mercato e tetto massimo fissato per legge: i famosi critici ritengono che in Italia il provvedimento si tradurrebbe in ulteriori inasprimenti fiscali – come dire che quello che non si paga in bolletta, lo si pagherebbe con le tasse – senza contare non è affatto detto che si otterrebbe una deroga, accordata dalla UE ai paesi iberici solo in virtù della condizione di isolamento energetico rispetto al resto del continente; inoltre, teniamo presente che i due stati hanno consumi gasieri molto inferiori ai nostri (l’Italia, ancora ad ottobre 2021, ricorreva al metano per produrre circa il 40 per cento della sua energia elettrica). Tra le strade per limitare l’acquisto del gas russo (che resta il più economico sul mercato), ricordiamo la decisione di ricorrere al gas liquefatto proveniente da USA e Qatar, che tuttavia è più costoso di quello naturale e richiede onerose operazioni di trasporto e rigassificazione, oltre ad avere un maggior impatto ambientale. In definitiva, come fa notare Thierry Bros, esperto francese di energia e clima, scrivendo sul suo account Twitter (il 28 agosto), i mercati europei hanno già fatto tutto il possibile per sostituire il gas russo compresa la ricerca di nuovi fornitori, le misure di contenimento e il ricorso al nucleare (per chi ne dispone), per cui ora occorrerebbe forse solo arrendersi all’evidenza. Di inevitabili razionamenti e della necessità di riaprire le centrali a carbone parla (stavolta riferito all’Italia) Davide Tabarelli, fondatore di Nomisma Energia, definendo erronea e fuori della realtà la prospettiva di risolvere tutto con le fonti rinnovabili. Un’alternativa, ripresa dai media e dai commentatori politici, sarebbe il ricorso ai pozzi nazionali, poco meno di 800, dei quali si occupò a marzo scorso anche Mario Giordano nel suo “Fuori dal coro”. Per il Codacons essi sarebbero in grado di produrre 90 miliardi di metri cubi di gas – attualmente ne produciamo appena tre – coprendo così larga parte del nostro fabbisogno, specie qualora associassimo a questa politica leve fiscali e una strategia dei consumi. A tal proposito, però, vi segnaliamo un video recentissimo del canale YouTube Geopop, che traccia un quadro assai meno ottimistico: premesso che stiamo sintetizzando al massimo, suggerendovi di guardarlo nella sua interezza, il messaggio di fondo è che molte di queste risorse non sono sfruttabili per ragioni tecniche e/o economiche, e comunque non in tempi brevi. Lo stesso dicasi per una eventuale riapertura delle centrali nucleari che – a voler essere ottimisti – richiederebbero minimo una decina d’anni; lo stesso discorso che vale per le famose rinnovabili. Il professor Gian Battista Zorzoli, docente universitario ed esperto di energia, vedrebbe una soluzione in un mix tra rinnovabili (meno soggette alle variazioni del mercato delle materie prime) e un mercato basato su contratti di lungo periodo, con una base d’asta fissata in anticipo, applicando il criterio del prezzo più basso. Riprendendo sulla questione un’altra parte del citato intervento del prof. Salerno Aletta: “Le regole della Unione Europea impongono una regola inderogabile, quella dell’aggiudicazione dell’asta ad un prezzo/incasso omogeneo per tutti, compratori ed offerenti, al livello più alto, marginale: tutti coloro che hanno richiesto energia elettrica o gas devono pagare lo stesso “prezzo marginale”, quello più alto; tutti coloro che hanno presentato offerte di fornitura ad un prezzo più basso di quello marginale, incasseranno comunque un pagamento commisurato al più alto “prezzo marginale”. In pratica, essendo il prezzo del mercato spot dell’energia, quello dell’ultimo metro cubo di gas venduto, che determina le bollette di milioni di consumatori, la soluzione proposta dell’asta a prezzo più basso, con le regole in vigore, non sarebbe percorribile.” Si tratta di un paradosso, che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: per evitare le possibili speculazioni al rialzo da parte dei fornitori di energia elettrica e di gas all’ingrosso, facendo incassare loro il “prezzo marginale” anziché quello che hanno presentato al momento della loro offerta, tutti gli acquirenti ed i consumatori pagano il “prezzo marginale”, che in sostanza risulta essere quello più alto. “È un delirio”, conclude lo stesso Aletta. Sulla soluzione dei contratti a lungo termine, vi è piena identità di vedute tra Aletta e Zorzoli: “la soluzione razionale sarebbe questa: obbligare tutti i fornitori di energia elettrica e di gas, cioè le imprese che hanno contratti con la clientela al dettaglio, famiglie ed imprese, di approvvigionarsi con contratti a lungo termine, e non con le aste quotidiane, per stabilizzare i prezzi di mercato. Almeno l’80% dei consumi medi della clientela dovrebbero essere coperti con contratti a lungo termine, lasciando alle aste solo le forniture marginali di energia.” A questo punto, forse, qualcuno di voi – magari più esperto di logiche di mercato ed economia – si starà ponendo la “domanda delle domande”: se una soluzione esiste, perché non percorrerla? Non dovete, però, proporla a noi, visto che siamo i primi a domandarcelo! In conclusione, partendo dall’analisi della (grave) situazione attuale e delle prospettive poco incoraggianti (volendo usare un eufemismo), noi abbiamo provato – ricorrendo alle opinioni e alle analisi di diversi esperti – di dimostrare che certe dinamiche, come spesso avviene nel mondo reale, non hanno una sola causa, per cui anche cercare di individuare il classico “capro espiatorio”, tentazione che tutti noi abbiamo avuto, rischierebbe di non rendere un buon servizio alla verità. Per restare agli interrogativi finali, potremmo ancora chiederci dove sia in tutto questo l’Unione Europea e, in parte, la stessa cittadinanza, che magari potrebbe prendere esempio da quanto sta accadendo nel Regno Unito (post brexit), dove già vengono organizzate le prime iniziative di massa, non esclusa la minaccia, di cittadini e imprese, di non pagare le bollette. Qui non si tratta di giustificare aggressioni militari contrarie al diritto internazionale, ma di prendere atto dell’esistenza di certe dinamiche geopolitiche, che, come ricordava il prof. Aletta, esistono e dalle quali non si può prescindere. Per quanto possa essere ostico da accettare, visto che contrasta coi nostri interessi, ci può seriamente stupire la strategia della dirigenza russa di utilizzare il gas come arma di pressione, oltre che come ritorsione avverso la politica di sanzioni adottata dai governi europei? Sarebbe, del pari, un errore pensare che la stessa Russia, specie nel lungo periodo, non accusi il colpo: l’Europa resta un mercato importante per Mosca, mentre per tutta una serie di ragioni – sulle quali ora non possiamo soffermarci – non è pensabile la sostituzione con un altro cliente (per esempio la Cina o l’India). In tal senso, non può dirsi un caso se nonostante tutto, con restrizioni o interruzioni dovute a più o meno reali ragioni questioni tecniche o politiche, l’oro blu continui ad affluire verso occidente, passando tra l’altro per il territorio ucraino (nonostante le restrizioni e interruzioni messe in atto o minacciate da Kiev). Fare qualunque previsione per il futuro sarebbe un mero azzardo, riteniamo però che solo una strategia di lungo periodo possa offrire delle risposte, auspicabilmente di respiro europeo: se pure queste portassero al distacco totale dal gas russo, non può trattarsi di decisioni repentine e diamo conto, per correttezza, della posizione di diversi analisti – come il giornalista Fabio Dragoni – che parlano apertamente di forniture russe insostituibili. Visto e considerato che l’inverno (e i nuovi aumenti) sono alle porte e che perfino la Germania non sembra escludere l’apertura del famoso North Stream 2, l’ultima domanda che vorremmo proporvi (e proporci) è la seguente: noi che faremo, o meglio che fine faremo?
di Paolo Arigotti