Negli ultimi anni l’attenzione della comunità scientifica e degli Enti preposti alla tutela della salute pubblica si è sempre più incentrata sul danno che le microplastiche arrecano all’equilibrio e al benessere degli ecosistemi e a quello umano.
Il problema viene per lo più associato ai mari e agli oceani e alla loro fauna, ma va presa coscienza che esso coinvolge anche le acque interne, pesantemente contaminate dalla plastica a causa di una insufficiente e non adeguata gestione dei rifiuti e della scarsa qualità della depurazione fognaria, i cui scarichi finiscono spesso in acqua senza subire i trattamenti necessari. La presenza di frammenti di plastica è in aumento negli ecosistemi di tutto il mondo e, a causa delle caratteristiche del materiale di origine, difficilmente si decompongono e per questo persistono a lungo nell’ambiente.
Sono definite microplastiche tutte le particelle le cui dimensioni sono comprese tra i 330 micrometri e i 5 millimetri. Possono avere origine primaria, come il pellet da pre-produzione industriale, fibre tessili provenienti dalle lavatrici o microsfere utilizzate nella cosmesi o secondaria, se derivano dalla disgregazione di rifiuti più grandi da parte degli agenti atmosferici. Si tratta di un inquinamento di difficile quantificazione e impossibile da rimuovere totalmente, per il quale si rendono necessari prevenzione e approfondimento scientifico.
Gli studi sono partiti già negli anni ’70, riguardando principalmente la dispersione nell’ambiente marino. Ma solo di recente sta crescendo la consapevolezza che anche le acque dolci sono afflitte da questo grave problema. Macro e microplastiche sono sempre più presenti anche nei laghi, trasportate da corsi d’acqua e scarichi. A causa di diversi processi chimici e fisici, dovuti all’azione dei raggi ultravioletti, al vento, alle onde, ai microbi e alle alte temperature, la plastica si discioglie quindi in piccoli frammenti. Proprio perché sono molteplici gli elementi che concorrono al deterioramento, è difficile stabilire con precisione il tempo che occorre ad un singolo frammento per diventare microplastica. Va tenuto conto, infatti, anche della presenza degli additivi chimici utilizzati durante la produzione delle materie plastiche, che conferiscono ai materiali maggiore resistenza ai raggi ultravioletti e impermeabilità, come gli antimicrobici e i ritardanti di fiamma.
In occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente del 5 giugno sono stati diffusi tre studi condotti da un gruppo di ricercatori di Enea e Cnr in collaborazione con Goletta dei Laghi e Legambiente. Le indagini sono state condotte su alcuni laghi del nostro territorio nazionale, consentendo di colmare un ritardo di conoscenze sull’impatto delle microplastiche sulle acque dolci, rispetto ai numerosi studi condotti invece su mari ed oceani in tutto il mondo.
Malgrado l’acqua ricopra quasi il 70% della superficie del nostro pianeta, quella dolce superficiale, utilizzata maggiormente per i diversi usi antropici, rappresenta solo l’1,2% del totale. Questa piccola percentuale deve sostenere e nutrire quasi 8 miliardi di persone ed è proprio quella sempre più a rischio. Secondo le stime dell’ONU entro il 2050 saranno oltre cinque miliardi gli esseri umani a rischio di carenza di acqua pulita a causa di continuo prelievo, inquinamento, cambiamento climatico, contaminazioni da metalli pesanti, sostanza tossiche e anche in misura crescente dalle microplastiche.
Le indagini condotte dal team di studiosi nei laghi Maggiore, Iseo e Garda, hanno evidenziato un’abbondanza di microplastiche media per km² rispettivamente di 39mila, 40 mila e 25 mila, simili a quelli riscontrati in alcuni grandi laghi americani e in laghi svizzeri. Sempre il Cnr in collaborazione con l’Irsa (Istituto di ricerca sulle Acque) ha svolto ricerche sulla platisfera, biofilm associato alle microplastiche, cioè l’insieme delle comunità microbiche che ne colonizzano la superficie. Proprio gli studi sulla platisfera stanno facendo emergere il ruolo delle microplastiche come veicolo di trasporto e diffusione di geni di resistenza agli antibiotici, di microrganismi patogeni e microalghe tossiche per gli organismi acquatici e per l’uomo.
Un altro importante recente studio del Cnr-Irsa ha messo in evidenza che le microplastiche non sono tutte uguali.
In acqua i batteri che crescono sulle microparticelle derivate dagli pneumatici sono più pericolosi per l’ambiente, rispetto a quelli che si sviluppano sui frammenti delle bottiglie di plastica, che invece potrebbero porre problemi per la salute dell’uomo. La ricerca è stata pubblicata su Journal of Hazardous Materials.
Plastiche e microplastiche sono ormai riconosciute come un inquinante emergente con effetti nefasti sulla salute di tutta la biosfera ed i suoi abitanti. Lo studio condotto dal Cnr-Irsa di Verbania ha dimostrato che microplastiche diverse possono causare un impatto differente sulle comunità batteriche in acqua. Riproducendo un sistema che replica un fiume o un lago sono state comparate le comunità batteriche che crescono sul polietilene tereftalato (Pet) ricavato da una bottiglia di bibita, molto abbondante in acqua, con quelle che si sviluppano su particelle di pneumatici, quasi sconosciute a causa del fatto che tendono a non galleggiare e ad affondare molto lentamente. I ricercatori hanno dimostrato che il Pet offre rifugio a batteri patogeni umani, che possono causare un rischio immediato per la salute umana, senza però favorirne una crescita immediata. Le particelle di pneumatici invece, grazie al rilascio costante di materia organica e nutrienti, favoriscono la crescita abnorme di batteri cosiddetti opportunisti che, pur non causando un rischio diretto per l’uomo, causano una perdita di qualità ambientale. Il risultato di questi studi apre la necessità di riconsiderare i metodi di analisi dell’inquinamento da microplastiche e lancia un allarme sugli ambienti acquatici italiani particolarmente esposti a tale situazione.
di Rosaria Russo