Il rapporto CENSIS 2020 sull’aumento della povertà in Italia

Il Censis, Centro Studi Investimenti Sociali (www.censis.it), ha pubblicato il 4 dicembre scorso la 54ª edizione del suo Rapporto annuale, preceduto da quello dedicato a “La sostenibilità al tempo del primato della salute” (seconda edizione), presentato lo scorso 23 novembre al Senato, in collaborazione con la società di consulenza Tendercapital (tendercapital.com/presentazione-del-2-rapporto-censis-tendercapital-la-sostenibilita-al-tempo-del-primato-della-salute).

Nell’attenta indagine ed interpretazione dei più rilevanti fenomeni economici e sociali del Paese, il focus si sofferma sulle più importanti trasformazioni della società italiana.

Il primo dato sul quale vorremmo concentrare la nostra breve analisi è quello riferito ai cinque milioni di italiani che hanno evidenti difficoltà per riuscire a garantirsi un pasto “decente”, con un incremento – dovuto alla pandemia – di 600mila unità nella fascia di popolazione in condizione di povertà.

Il Censis stima in 7,6 milioni il numero delle famiglie che hanno registrato un “severo peggioramento” del loro tenore di vita, con una contestuale riduzione di un terzo del reddito disponibile per le fasce più deboli rispetto al dicembre 2019 (in media si passa dai 900 euro mensili di dodici mesi fa, ai 600 attuali).

Per nulla ottimistiche le aspettative per il futuro, se consideriamo che oltre il 60 per cento degli intervistati ha paura di perdere il lavoro o dover fronteggiare un’importante riduzione del reddito, ingenerando così ulteriori incertezze ed insicurezze. Più della metà dei lavoratori a basso reddito (il 53%) ha fondato timore di vederlo ulteriormente decurtato, mentre la paura della disoccupazione interessa il 42 per cento degli intervistati.

Parlando di dati reali e guardando ai mesi del primo lock-down, circa metà degli italiani (50,8%) ha vissuto un’inattesa contrazione delle proprie disponibilità economiche, con punte del 60% fra i giovani, del 69,4% fra i lavoratori a tempo determinato, del 78,7% fra gli imprenditori e i liberi professionisti. Va, però, detto che – all’interno dello stesso range temporale – la percentuale degli occupati a tempo indeterminato è arrivata al 58,3%.

La riduzione del reddito ha inciso pure sulla consistenza dei risparmi delle famiglie, visto che 23,2 milioni di persone hanno dovuto attingere, pure in modo consistente, ai loro conti e depositi bancari.

La pandemia, inoltre, riverbera i suoi effetti negativi sulla parità di genere: la forbice occupazionale tra uomini e donne arriva al venti per cento, mentre le lavoratrici che hanno perso il lavoro a causa del Covid19 sono il doppio dei colleghi dell’altro sesso (-2,2% a fronte di un –1,3).

Va aggiunto che le donne lamentano un aumento dello stress lavorativo, destinato a riverberarsi su condizioni familiari già difficili, rispetto agli uomini (rapporto percentuale di 52 a 39).

Un altro deciso peggioramento viene rilevato per il gap generazionale, con una drastica contrazione dell’occupazione giovanile rispetto al pregresso (per l’Istat un giovane su tre è senza lavoro).

Aumenta il digital divide, visto che le famiglie a basso reddito, ulteriormente colpite dalla pandemia, non hanno accesso ai servizi della rete.

Non va meglio per le piccole e medie imprese: 460mila sono a rischio chiusura.

Inevitabile riflesso di quanto precede è l’allargamento della disparità tra le classi sociali: un altro studio condotto dal Censis in collaborazione con Aipb (Associazione italiana del private banking) rileva che i soggetti con un patrimonio oltre i 500 mila euro sono 1,5 milioni e possiedono risparmi stimati in 1.150 miliardi di euro, con un incremento del 5,2% nell’ultimo biennio.

Se è vero che un buon 65 per cento degli interpellati propende per un modello di crescita sostenibile, rispettoso dei diritti individuali, oltre 3/4 di loro pensa che le misure a tutela dell’ambiente abbiano penalizzato le fasce più deboli. Un esempio per tutti sono i divieti di circolazione per i mezzi più vecchi e le misure fiscali disincentivanti riferite ad auto, moto e caldaie più inquinanti.

Il quadro è sconfortante e ci mostra lavoratori stressati, mal pagati, senza una protezione sociale e/o risparmi a cui attingere, con un futuro incerto e denso di paure.

Il Focus Censis Confcooperative, presentato nello scorso mese di luglio (confcooperative.it/LInformazione/Notizie-Quotidiano/censisconfcooperative-covid-baratro-povert224-assoluta-per-altre-21-milioni-di-famiglie), parla senza mezzi termini del rischio di una nuova frattura sociale, con circa 2,1 milioni di famiglie messe in ginocchio dal primo lock-down e 1.059.000 che vivono esclusivamente di lavoro irregolare (parliamo del 4,1% delle famiglie italiane). Di queste ultime, oltre un terzo (vale a dire 350mila nuclei) sono composte da stranieri.

Il lavoro irregolare prevale al Sud (44,2 per cento del totale), ma il fenomeno è presente anche nelle altre aree del Paese: 20,4% nel Nord Ovest, 21,4% nelle regioni centrali, 14% nel Nord Est.

Anche la “geografia della povertà” registra un triste primato per il Mezzogiorno: il rapporto con il settentrione è di 45,1 a 40,5.

Il lock-down ha colpito particolarmente gli irregolari, come pure i cosiddetti lavoratori poveri (coloro che percepiscono una retribuzione – inferiore ai 9 euro all’ora – insufficiente a garantirsi l’esistenza libera e dignitosa prevista dall’art.36 della Costituzione): parliamo, rispettivamente, di 3,3 e 2,9 milioni di persone. Tra i lavoratori “poveri” prevalgono gli uomini di età compresa tra i 30 ed i 49 anni, mentre il settore lavorativo maggiormente interessato dal fenomeno è quello degli operai. Gli irregolari sono diffusi soprattutto nei servizi e nel lavoro domestico, in misura inferiore nell’industria e in agricoltura; il lavoratore irregolare è spesso alle dipendenze di altri, mentre solo un quarto svolge un lavoro autonomo.

Per concludere questa breve analisi, prenderei in prestito le parole del presidente del Censis, Giuseppe De Rita, il quale, esprimendo forte preoccupazione per la situazione e gli effetti della pandemia, in particolare sulla stessa tenuta del welfare e della coesione sociale, parla senza mezzi termini di condizioni drammatiche e di una società impaurita e più diseguale, che richiederà un’azione forte e congiunta dello Stato, delle imprese e dei mercati.

di Paolo Arigotti