Il sionismo è un movimento politico e religioso internazionale, che si proponeva come obiettivo ultimo la creazione di uno Stato ebraico, da collocare geograficamente nella “Terra di Israele” di biblica memoria (Cananea, Terra santa, Palestina). La costituzione della nuova entità politica avrebbe permesso la definitiva affermazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, specie di fronte all’avanzare delle dottrine antisemite, che si diffusero nel continente europeo ben prima dell’avvento al potere di Hitler (parliamo di paesi come la Russia o l’Austria).
Sviluppatosi a partire dalla fine del XIX secolo, il sionismo si innestava in quel movimento intellettuale illuminista della Haskalah (letteralmente intelletto, detto anche illuminismo ebraico) il quale, nato sul finire del ‘700, patrocinava l’emancipazione e l’eguaglianza degli ebrei contro ogni forma di discriminazione. Il suo nome deriva dal Monte Sion, un’altura nei dintorni di Gerusalemme, che secondo alcuni sarebbe stato il primo nucleo della futura città. Il fondatore del sionismo è tradizionalmente considerato Theodor Herzl, un giornalista austro-ungarico, che nella sua veste di corrispondente da Parigi si era occupato diffusamente del cosiddetto affare Dreyfus, un processo imbastito contro un militare di origine ebraica accusato di tradimento, contro il quale si era scatenata una campagna di stampa dai chiari toni antisemiti. Fu questo episodio, unitamente ai pogrom attuati in Russia e l’acutizzarsi del sentimento antiebraico a spingere Herzl a promuovere la nascita di uno stato ebraico come unico salvacondotto per gli ebrei europei.
Sempre il movimento sionista avrebbe favorito, prima e dopo la Grande guerra, le prime emigrazioni di massa verso la terra di Palestina, prima possedimento turco e poi affidata al mandato britannico dopo la fine del primo conflitto mondiale. Non che in precedenza non ci fossero stati flussi migratori, solo che fino a quel momento avevano avuto matrice prevalentemente religiosa (e non di “fuga” dalle discriminazioni). Herzl avrebbe affidato il suo progetto ad un volume intitolato Der Judenstaat (1896), opera tradotta immediatamente in molte lingue e che ebbe un successo mondiale inatteso per il suo stesso autore. L’anno seguente si tenne a Basilea, in Svizzera, il primo Congresso Sionista Mondiale (dal 29 al 31 agosto 1897), immediatamente trasformatosi in un movimento internazionale permanente. Il programma pubblicato con l’occasione recitava: «il sionismo si sforza di ottenere per il popolo ebraico un focolare garantito dal diritto pubblico in Palestina».
Si parlava di raggiungere quest’obiettivo favorendo la colonizzazione ebraica in Palestina, l’unificazione e l’organizzazione delle comunità ebraiche sparse per il mondo, lo sviluppo di una coscienza ebraica nazionale ed individuale, promuovendo iniziative per garantirsi appoggio e sostegno dei vari governi mondiali. I primi flussi migratori verso la Palestina interessarono soprattutto ebrei russi (si parla di oltre 2 milioni di individui in fuga, specialmente dopo la pubblicazione dei famigerati protocolli), per quanto – ad onor del vero – la meta della stragrande maggioranza dei loro correligionari furono le Americhe ed in misura minore paesi europei, a parte Africa e Oceania.
In parole povere la “terra promessa” non attirava più di tanto. Figura chiave e punto di riferimento per la comunità statunitense sarebbe stato nel periodo a cavallo tra i due secoli il rabbino ed accademico Solomon Schechter, fondatore e presidente della United Synagogue of America, presidente del Jewish Theological Seminary of America (JTSA). Non a caso i nazisti avrebbero accusato a più riprese gli USA di essere una nazione in mano al potere ebraico. I primi coloni in terra di Palestina cominciarono a far germinare un concetto di nazione (l’uso della lingua ebraica progressivamente avrebbe preso il posto dello yiddish e degli altri idiomi originali degli immigrati, per quanto ancora oggi in Israele l’inglese sia molto diffuso), facendo appello ad un diritto millenario su quei territori fondato sulla tradizione biblica. Questi coloni furono i primi sostenitori del progetto sionista di perseguire «… per il popolo ebraico una patria in Palestina pubblicamente riconosciuta e legalmente garantita.» Il sionismo si valse del sostegno di diversi gruppi di finanziatori, disponeva di propri giornali (il Die Welt ne divenne l’organo ufficiale) ed organizzò svariati incontri tra i leader del movimento con sovrani e capi di governo (compresi re Vittorio Emanuele III e Papa Pio X).
Il movimento acquisì adesioni importanti, compresa quella del fisico tedesco Albert Einstein (che successivamente avrebbe riparato negli USA, dopo l’avvento al potere di Hitler). I coloni crearono un primo embrione di organizzazione agraria, fondato sul modello socialista di fattoria collettiva (Kibbutz), acquistando la proprietà di numerose terre e fondando nuove città: dai sobborghi di Giaffa sarebbe nata nel 1909 la città nuova di Tel Aviv, destinata poi ad inglobarla e divenire la prima capitale del nuovo stato ebraico. Le vicende della Prima guerra mondiale impressero una svolta decisiva ed imprevista. Il Regno Unito, in guerra contro il decadente impero ottomano, cercò di garantirsi l’appoggio dei coloni per il tramite dei sionisti, impegnandosi – con una nota dell’allora Segretario per gli Affari Esteri Arthur James Balfour indirizzata a Lord Lionel Walter Rothschild, banchiere svizzero e membro del movimento sionista internazionale e britannico – a mettere a disposizione dello stesso movimento, in caso di vittoria, taluni territori in Palestina, per la costituzione di una Home rule (letteralmente patria) ebraica (si tratta della cosiddetta Dichiarazione di Balfour, alla quale ancora oggi è intitolata una delle strade più centrali di Gerusalemme): «Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni» (testo della Dichiarazione di Balfour del 2 novembre 1917).
Al di là del concetto evasivo di “patria” (o focolare) utilizzato nella dichiarazione, frutto di una scelta diplomatica di compromesso, il problema era che gli inglesi per sconfiggere i turchi si erano impegnati anche con gli arabi (all’epoca sudditi turchi), offrendo loro garanzie circa il diritto all’autodeterminazione; nel 1916 siglarono un’intesa con lo “sceriffo” della Mecca Hussein: in cambio del sostegno nella guerra contro la Turchia, Londra prometteva il suo appoggio per la nascita di un regno arabo indipendente comprendente Arabia, Mesopotamia e Siria. Le truppe di Hussein, guidate dai figli e con l’ausilio dell’agente inglese Thomas Edward Lawrence (il leggendario Lawrence d’Arabia) avrebbero offerto un supporto decisivo all’avanzata britannica. Era di tutta evidenza come i due impegni avrebbero creato non pochi problemi alla fine della guerra, visto che si ponevano in palese contraddizione.
La vittoria anglo francese e la nascita della Società delle Nazioni (antesignana dell’ONU) con l’obiettivo (fallimentare) di mantenere la pace mondiale, preluse alla decisione politica di affidare un “mandato” (una sorta di protettorato) sui territori finora dominati dal sultano turco. I territori corrispondenti alle odierne Siria e Libano andarono alla Francia, il resto (Mesopotamia e Palestina) al Regno Unito. In teoria doveva trattarsi di una soluzione provvisoria, prodromica alla piena indipendenza, di fatto si trattava di nuove colonizzazioni. Londra per tenere (parzialmente) fede all’impegno preso con gli arabi consentì alla nascita di due nuovi stati: l’Iraq e la Transgiordania (la futura Giordania).
La colonizzazione ebraica in Palestina conobbe una nuova espansione sotto il mandato britannico, per quanto in teoria dovesse essere attuata nel rispetto dei “diritti civili e religiosi” delle popolazioni locali (i palestinesi, che vi abitavano da secoli). Per quanto nei primi anni la convivenza tra coloni ed arabi fosse stata pacifica, a partire dai primi anni Venti iniziarono gli scontri, che avrebbero preluso ad un conflitto che ancora oggi non può dirsi risolto. I coloni ebrei per difendersi dagli attacchi arabi – che avevano qualche motivo di risentimento, causato soprattutto dalla politica ambigua ed ambivalente seguita dagli inglesi – crearono una forza paramilitare di difesa, chiamata Haganah (letteralmente difesa), una sorta di primo embrione del futuro esercito israeliano. Nel frattempo, l’immigrazione ebraica proseguiva, ulteriormente incoraggiata dalla presa del potere dei nazisti in Germania. Va, però, detto che non tutti gli ebrei che abbandonarono il Reich – spinti da normative sempre più discriminatorie – si dirigevano in Palestina. Svariate ragioni come il desiderio di ricongiungersi con familiari o amici, la ritrosia a recarsi in un territorio poco conosciuto e/o di dedicarsi ad attività agricole (allora preminenti) scoraggiarono molti da sceglierla come destinazione (appena 1 su 10), preferendogli gli Stati Uniti o altri paesi europei (molti, parlando col senno di poi purtroppo, scelsero la Polonia); basti dire che alla fine della Seconda guerra mondiale solo il 20 per cento dei coloni che vivevano in Palestina provenivano dal Reich (cosiddetti yekke).
Un personaggio molto discusso, Adolf Eichmann (responsabile ufficio affari ebraici delle SS dal 1937, tra i massimi artefici della cosiddetta soluzione finale e processato ed impiccato a Gerusalemme nel 1961) si recò in Palestina nel 1937 ed ebbe diversi incontri coi delegati sionisti; uno di questi incontri ebbe luogo a Vienna (pare in casa Rotschild nel 1939) dopo l’Anschluss, per negoziare i flussi migratori. Alla vigilia della guerra erano in corso trattative tra i vertici nazisti e i delegati dell’agenzia ebraica per l’espatrio di 10mila ebrei dal porto di Amburgo, che purtroppo naufragò a causa dell’inizio del conflitto. Una delle maggiori critiche rivolte a posteriori all’agenzia ebraica, che praticamente deteneva l’esclusiva sul rilascio dei certificati di emigrazione, fu quella di contrastare l’immigrazione illegale (fenomeno acutizzatosi dal 1934 in poi), perfino quando rappresentava l’unica ancora di salvezza per gli interessati. In sostanza, prima ancora del blocco disposto dagli inglesi nel 1937/8, l’agenzia patrocinò sempre un’emigrazione di tipo selettivo, che privilegiava l’afflusso di persone “utili” al progetto sionista (giovani, portatori di capitali, persone che sposavano politicamente le idee del movimento), di fatto impedendo flussi molto più corposi che probabilmente avrebbero salvato la vita di tante persone. Henrietta Szold dirigeva l’ufficio assistenza sociale dell’agenzia ed ebbe a lamentarsi della presenza tra i migranti di malati ed indigenti, considerati un inutile “peso”, arrivando a chiederne in alcuni casi il rimpatrio in Germania.
La sede dell’agenzia creata a Berlino per la concessione dei visti fu, pertanto, incaricata di selezionare le richieste, escludendo tutti i soggetti potenzialmente inabili al lavoro (per motivi di età o salute). Ovviamente non possiamo trascurare una domanda che molti si saranno già posti: la dirigenza sionista era perfettamente al corrente delle discriminazioni naziste, visto che si trattava di norme giuridiche pubbliche e propagandate dal regime, ma sapeva dell’Olocausto? Il 30 giugno 1942 il giornale Davar dava la notizia dell’uccisione di un milione di ebrei europei, e non era il primo a farlo. Vari giornali avevano già diffuso notizie del genere, molte voci circolavano grazie alle testimonianze di profughi o reduci di guerra. La stessa agenzia di stampa ufficiale sionista Palcor ne aveva dato conto ed a novembre l’agenzia ebraica – i cui leader probabilmente erano al corrente da tempo di quanto stava avvenendo – rilasciò un comunicato ufficiale dell’esistenza di un piano per lo sterminio degli ebrei europei e delle strutture deputate alla sua attuazione.
Qualche settimana prima l’industriale tedesco antinazista Eduard Schulte ne aveva informato a Ginevra Gerhart Riegner, rappresentante del congresso ebraico mondiale (lo stesso Ben Gurion incontrò agli inizi del 1943 ad Haifa una profuga, che gli narrò a lungo degli orrori cui aveva assistito). Ci furono, è vero, manifestazioni di cordoglio e protesta, durante la guerra giunsero in Palestina circa 50mila profughi (non tutti legalmente), ma ciò nonostante l’agenzia conservò la politica di emigrazione selettiva. Dei circa 9 milioni di ebrei che si calcola vivessero in Europa agli inizi della guerra, 6 furono sterminati e gli altri probabilmente si salvarono grazie alla disfatta tedesca e/o alla fiera resistenza di personaggi coraggiosi (i “giusti”) o di interi popoli (il caso danese insegna). Pochissimi di loro dovettero la salvezza all’azione del sionismo, che al più intervenne in singole circostanze, erogando qualche finanziamento o accogliendo pochi profughi. In altre parole, perseguì il proprio disegno – la creazione dello stato ebraico – con cinica determinazione. Ad ogni modo, i flussi migratori che precedettero la Seconda guerra mondiale avevano portato a circa mezzo milione il numero degli ebrei in Palestina e a 250 quello degli insediamenti, tutti muniti di organismi di autogoverno e di proprie forze di difesa (con un organico di circa 10mila uomini).
Nel mentre, dopo i primi scontri di cui si è detto, anche i palestinesi si erano dati una loro organizzazione per contrastare l’immigrazione ed il sostanziale impossessamento delle terre ad opera dei migranti, facendo leva sia sul nazionalismo arabo, che sul sentimento religioso. Nel 1935 lo sceicco Izz Al-Din al Qassam fondò l’associazione dei giovani musulmani, con l’obiettivo di canalizzare in un’unica organizzazione la resistenza antiebraica. Il nuovo organismo invitava gli arabi a non vendere più le terre ai coloni ed incitava apertamente alla jihad (letteralmente guerra santa) contro di loro e contro gli inglesi.
Nascevano i mujaheddin (guerrieri della fede) e gli shahid (martiri della fede), che daranno vita tra il 1936 ed il 1938 ad una prima grande rivolta araba, duramente repressa dagli inglesi. A Damasco, nel 1937, si tenne una conferenza panaraba promossa dai britannici, che vide una sorta di accordo di compromesso, per porre fine ai disordini: si bloccavano nuove colonizzazioni ebraiche e contemporaneamente si ponevano importanti limitazioni per ulteriori flussi migratori, decisione gravida di conseguenze visto il periodo e le restrizioni già applicate dall’agenzia ebraica. Lo scoppio della guerra mondiale collocherà in secondo piano una situazione a dir poco esplosiva, dove si profilava uno scontro aperto tra due gruppi etnici contrapposti, entrambi con forza militare e sostegno popolare fondati su un impianto ideologico di matrice nazionalista e religiosa. Dedichiamo un cenno al gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini, suprema autorità giuridica islamica sunnita, incaricato della gestione dei luoghi santi per l’Islam di Gerusalemme, che si schierò apertamente contro britannici e coloni, non soltanto promuovendo azioni di lotta e fomentando l’odio, ma appoggiando apertamente il nazismo (si incontrò nel 1941 con lo stesso Hitler, che promise nell’occasione il suo sostegno al nazionalismo arabo), fino a creare una divisione di SS islamiche nella Iugoslavia occupata. La fine del conflitto avrebbe palesato gli errori clamorosi compiuti dalla ex potenza coloniale (che penserà bene di ritirarsi, prendendo atto del fallimento e dell’impossibilità – dovuta alla dura prova del conflitto appena concluso – di risolvere una situazione incancrenita), non meno gravidi di conseguenze di quelli commessi quasi contemporaneamente in India e Pakistan.
L’Olocausto portò con sé una sorta di senso di colpa collettiva verso il popolo ebraico, contribuendo ad accelerare l’indipendenza israeliana (e lo scoppio del conflitto con gli arabi), per quanto si trattasse di un progetto politico coerentemente perseguito dai sionisti prima di quelle atrocità (e con tutte le ombre che abbiamo visto).
La nascita dello stato israeliano si colloca nel contesto politico del dopoguerra, e rappresentò un primo e deleterio esempio dell’incapacità della neonata ONU di gestire una situazione di grave crisi. Prima della guerra diversi paesi arabi avevano conquistato l’indipendenza: oltre ai già citati Iraq e Transgiordania: Yemen, Arabia Saudita, Siria, Libano. I nuovi stati si affrettarono a darsi una propria organizzazione sovranazionale (la Lega degli stati arabi), la quale si dichiarò fin da subito a favore della nascita di uno stato arabo palestinese, il che non rappresentava certo un fatto rassicurante per i coloni ebrei. Questi ultimi decisero così di rafforzare le proprie formazioni paramilitari: a fianco dell’Haganah nacquero Irgun e Banda Stern, responsabili di azioni terroristiche sia contro gli arabi che contro gli inglesi. Tra i promotori delle nuove organizzazioni troviamo lo stesso David Ben Gurion (dal 1935 Presidente dell’Agenzia Ebraica per la Palestina, in rappresentanza dell’ala maggioritaria di ispirazione social-laburista) e Menachem Begin, ambedue futuri premier israeliani.
Tra gli attentati più famosi quello contro Lord Moyne, ministro britannico in Medio Oriente (Il Cairo, 1944) che quello contro l’hotel King David di Gerusalemme (1946), costato la vita a 91 persone (inglesi, arabi ed ebrei). Se già nel settembre del 1944, quando la sconfitta tedesca era oramai certa, Ben Gurion aveva dichiarato: “[…] la maggior parte degli ebrei è stata annientata. Tutti ci chiediamo: dove troveremo uomini e donne per la Palestina?”, negli ultimi giorni di guerra egli stesso domandò al movimento sionista di inviare in terra di Palestina un milione di ebrei (il doppio dei residenti in quel momento) per chiudere la partita con gli arabi ed accelerare il processo di indipendenza. Il problema era che ben difficilmente l’agenzia sarebbe stata in grado di reggere un simile afflusso in un sol colpo. L’immigrazione, ad ogni modo, ci fu, soprattutto da quell’est europeo che aveva conosciuto più di tutti gli orrori nazisti (si parla di 90mila nell’immediato dopoguerra, altri 260mila negli anni successivi; nel 1950 vivevano in Israele circa 350mila superstiti dei lager); in molti preferivano abbandonare i paesi orientali per timore di ritorsioni e violenze, che si verificarono purtroppo anche dopo la fine della guerra. I coloni che già risiedevano in Palestina provarono a loro volta ad organizzare flussi migratori “illegali” via mare (Aliyah Bet), ma le autorità britanniche spesso intercettarono e rimandarono indietro la maggior parte delle imbarcazioni.
Numerose navi portarono in Palestina molti profughi, tra gli episodi più conosciuti quello della nave Exodus (i nomi furono scelti non a caso) che nel 1947 trasportava 4.500 reduci dei lager, respinti alla frontiera e costretti dagli inglesi a finire a Cipro, in un campo di detenzione. Dopo la nascita di Israele e fino al 1953 furono circa 150mila gli immigrati nel nuovo stato, altri 28mila scelsero gli Stati Uniti. Il clima di tensione, la spinosa questione dei migranti e gli attentati, assieme al fatto di avere le ossa rotte dopo una guerra lunga e sanguinosa, indusse gli inglesi – come si accennava – ad abbandonare la partita, rinunciando al “mandato” nel maggio 1947 e demandando il problema della regione alle Nazioni Unite. Una commissione speciale ONU per la Palestina (UNSCOP) approvò a novembre dello stesso anno un progetto che prevedeva la costituzione di due stati, Israele e Palestina, con Gerusalemme città libera sotto il controllo internazionale.
Il piano fu approvato dall’Assemblea generale con la risoluzione del 29 novembre, n. 181. Sulla carta una conclusione perfetta sul piano diplomatico, purtroppo le cose non andarono nel modo sperato. Nei giorni successivi e per tutti i primi mesi del 1948 si susseguirono azioni terroristiche israeliane contro i villaggi palestinesi siti nei territori che l’ONU aveva assegnato loro (tristemente nota quella del marzo 1948 contro il Deir Yassin, nei pressi di Gerusalemme, che causerà più di cento morti).
Il 14 maggio 1948 il leader sionista Ben Gurion proclamava la nascita dello stato di Israele, divenendone primo ministro (carica che avrebbe conservato fino al 1963). Il nuovo stato venne immediatamente riconosciuto dalle due superpotenze USA ed URSS, ma non dal mondo arabo. La reazione fu praticamente immediata: il giorno successivo alla dichiarazione d’indipendenza scoppiava il primo conflitto arabo israeliano, ma di questo parleremo nel successivo articolo dedicato alla storia israeliana e del conflitto col mondo arabo.
di Paolo Arigotti