La retribuzione in Italia: tra precarietà, lavoro povero e salario minimo

Riguardo la penuria di personale nel nostro Paese ‹‹da più parti si sostiene che non si trovino persone a causa dell’atteggiamento remissivo dei lavoratori e di generosi sussidi. È una lettura paternalista non sostenuta da evidenze empiriche […]. Le persone, semplicemente, si sono dimostrate agenti razionali in un periodo segnato da rischi sanitari ed economici che hanno profondamente ridisegnato valori e priorità delle persone e, conseguentemente, le aspettative›.

È quello che si legge nel Rapporto INAPP La retribuzione in Italia è proporzionale e sufficiente? Salario minimo, povero, medio, reputazionale e di riserva (ottobre 2023), che sottolinea come le persone in cerca di lavoro nel nostro Paese non costituiscono più, fortunatamente, un indistinto “esercito di riserva”; al contrario compiono scelte ponderate e razionali in senso economico, cercando opportunità che consentano una prospettiva di vita.

In un’ottica di analisi costi-benefici livelli modesti di retribuzioni portano a valutare se valga la pena sostenere delle spese (ad es. trasferimento di residenza, auto, asili, baby-sitter, mense): in molti casi lavorare a tempo pieno per meno di € 1.200 al mese rischia di essere una perdita secca.

Ma qual è il compenso che richiedono le persone non occupate per accettare un impiego?

La retribuzione oraria netta per un impiego di 5 giorni a settimana e 20 giorni al mese richiesta per accettare un impiego (c.d. salario di riserva) è pari ad € 7,87 all’ora (poco più di 9 euro lordi l’ora) per 8 ore giornaliere (full time).

Il Rapporto dimostra che salario di riserva e salario minimo, quantificabile in € 9 lordi/ora (cifra su cui convergono le varie proposte), sono molto prossimi: ‹‹se i salari di riserva venissero accettati avremmo 5 milioni di potenziali occupati in più, in uno scenario di relativa carenza di manodopera››.

Ma l’INAPP mette in luce come le retribuzioni in Italia siano molto basse sia in termini nominali, rispetto ad altri Paesi europei, sia in termini reali; questo non solo a causa della recente fiammata inflazionistica, ma anche per adeguamenti contrattuali non corretti e tardivi e per l’eterogeneità del costo della vita sul territorio nazionale.

Il problema delle basse retribuzioni non è però uniforme: sono particolarmente esposti al lavoro povero (sotto i 7 euro netti l’ora) le donne, i giovani, le persone con bassi livelli scolastici, i residenti nel Mezzogiorno, gli occupati con impieghi atipici e in imprese di medie e piccole dimensioni.

Quale ruolo può giocare il salario minimo in questo contesto? Si legge nel Rapporto che ‹‹un salario minimo universale che alzasse i minimi tabellari dei CCNL più poveri metterebbe fuori gioco le imprese cattive e i sindacati pirata, a vantaggio dei lavoratori e delle imprese serie, alimentando una bonifica complessiva del sistema››. Inoltre, l’innalzamento delle retribuzioni più basse, quelle con la propensione al consumo maggiore, dovrebbe produrre un aumento del gettito fiscale e della domanda aggregata.  Ma, d’altra parte, lo stesso Rapporto specifica che sarebbe auspicabile una ponderazione del salario minimo con il costo della vita: ‹‹un salario minimo unico su un territorio eterogeneo e articolato rischia di essere troppo alto in alcuni ambiti e troppo basso in altri››. Si evidenzia, poi, che per alcune professioni (vigilanza, attività di cura), il salario minimo produrrebbe un aumento dei costi difficilmente sostenibile. Si tratta delle professioni a bassa intensità, in cui l’orario è molto lungo ma l’intensità dell’attività è discontinua (es. la badante quando la persona su cui vigila dorme o riposa). Quindi meglio sarebbe ‹‹valutare più configurazioni del salario minimo in via sperimentale (controllata)››.

Tuttavia, se è vero che ‹‹il salario non è solo un numero [ma] è la cifra della nostra civiltà del lavoro››, non si può prescindere dal dato di contesto impietosamente fotografato dagli ultimi Rapporti sulle comunicazioni obbligatorie (MPLS): nel 2021 il contratto a tempo determinato si è confermato il contratto prevalente (68,9% del totale nazionale) e nel 2022 ha riguardato il 63,4% degli individui tra 35 e 54 anni di età ed il 62,1% dei 55-64enni, mentre – sempre nel 2022, fra i giovani – si è registrato un elevato peso percentuale di tipologie contrattuali “flessibili” (contratti intermittenti, di agenzia, fomazione-lavoro, etc.).

‹‹Non si può non leggere congiuntamente retribuzione e discontinuità lavorativa››. La precarietà del lavoro resta, dunque, il problema principale: la discontinuità nel reddito di un lavoratore atipico impedisce la programmazione della vita e concorre a far procrastinare i tempi di emancipazione e le scelte procreative.

Ma non sarà certo il salario minimo ad assicurare ad un lavoratore precario la continuità reddituale e le tutele necessarie per un progetto di vita.

di M. Davide Sartori