Siamo alle solite. Da più di quattro anni timidamente è stata prospettata l’ipotesi di rinnovare l’attuale normativa di contrattazione del lavoro. A spingere in questa direzione sono stati i responsabili di Confindustria e alcuni Sindacati, i primi certamente per interessi contrapposti rispetto ai secondi. Però sul fronte sindacale si sono avute polemiche tra CGIL, CISL e UIL, che hanno pesantemente contribuito a ritardare l’apertura del negoziato. Mentre la CISL e l’UIL si sono dichiarate favorevoli alla riforma sia pure con impegno più o meno accentuato, la CGIL ha manifestato una accesa contrarietà a modificare l’accordo sul costo del lavoro del ’93, forse perché spinta dalla sua componente di sinistra radicale. Comunque, alla luce dei recenti avvenimenti, pare che i suddetti Sindacati siano propensi a raggiungere una intesa, anche se condizionata da alcune scelte ideologiche imposte dalla CGIL, sulle quali gli altri componenti della coalizione dovranno ancora decidere.
Per quanto riguarda la CISAL è da tempo che essa richiede il cambiamento, in quanto a ragione ritiene che la vigente normativa penalizza i lavoratori sul piano della professionalità, la quale a causa dell’evoluzione tecnologica e della diversa situazione economica ha acquisito una terminologia non più riscontrabile nel suddetto accordo, risalente a quindici anni fa e perciò non più consono alla nuova realtà.
Ora ci chiediamo: quale motivo spinge la Confindustria a voler essere l’interlocutore di questa vicenda? Dalle recenti dichiarazioni espresse dalla Marcegaglia, si è appreso che tale iniziativa sia riferita alla soluzione di due fattori: produttività e salari bassi. Passi per il primo, ma sul secondo nutriamo seri dubbi perché riteniamo che tale richiamo potrebbe essere dettato dalla necessità di salvare la faccia dinanzi all’intera comunità europea, la quale ha rilevato che i salari dei lavoratori italiani sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli dei restanti paesi, al limite della sopravvivenza, e che potrebbero essere a breve superati dalla Grecia, che oggi detiene il ruolo di cenerentola. Inoltre, in aggiunta alla produttività e ai salari bassi, i propositi innovativi della Confindustria attengono ad un progressivo alleggerimento dei contratti nazionali di categoria, dando spazio ai contratti a livello aziendale e non a quelli a livello territoriale. Se dovesse verificarsi tale assunto, vi è fondato timore che si potrebbe avverarsi una differenziazione dei salari tra le varie aziende, creando dal lato retributivo una palese discriminazione basata non sul rendimento e professionalità dei singoli, ma soltanto sul grado maggiore o minore di redditività aziendale. Noi siamo di diverso avviso: il contratto nazionale deve essere mantenuto per assicurare almeno i minimi salariali in misura equa e dignitosa, senza stravolgimenti di sorta, mentre i contratti di secondo livello debbono definire i trattamenti di salario accessorio, che potrebbero subire eventuali flessioni. Indubbiamente detta riforma dovrà modificare il sistema di calcolo delle risorse che non può basarsi solo sui coefficienti dei tassi di inflazione, i cui effetti sono variabili e potrebbero essere nulli, ma anche sulla partecipazione agli utili derivanti dalla produttività. Altra questione che dovrà essere oggetto di trattativa è quella della riforma del salario, complementare a quella della contrattazione.
Tra le misure urgenti richieste al Governo, quale adempimento di una esplicita promessa elettorale, vi è quella di detassare lo straordinario e i premi di produzione. Questo potrebbe essere un primo incentivo, in attesa dei benefici che si potrebbero avere a seguito della riforma della contrattazione, che speriamo avvenga il più presto possibile.