Storicamente, l’Algeria è stata a lungo colonia francese. Sul finire del XVIII secolo, formalmente sotto l’impero ottomano (la governava il Dey, una sorta di reggente) aveva offerto aiuto e supporto alla Francia rivoluzionaria. Nel 1830, col pretesto di alcuni dissapori, il re francese Carlo X ordinò la conquista del paese: le truppe di Parigi occuparono la capitale il 5 luglio. Questo non significa che la conquista fu rapida e indolore, visto che per molti degli anni a venire i francesi dovettero fronteggiare una dura resistenza interna, fatta di rivolte e guerriglie, che costarono un bilancio di vittime spaventoso (alcune fonti parlano di un milione di morti, circa un terzo degli algerini dell’epoca), con la penetrazione verso il deserto e l’espropriazione a rilento delle terre che richiese diversi decenni. Nel 1865 “pacificata” la colonia, l’imperatore Napoleone III estese il diritto di cittadinanza agli indigeni che ne facessero richiesta, ma con la caduta del secondo impero, il nuovo governo repubblicano limitò di molto tale provvedimento. Oltretutto, la nuova legislazione varata nel 1881 e valevole per tutte le colonie (code de l’indigenat) prevedeva una politica discriminatoria tra cittadini e indigeni, privati di larga parte dei diritti politici e civili (compresa l’istruzione pubblica), a differenza dei coloni stranieri (compresi italiani e spagnoli) ai quali, invece, fu garantito l’accesso alla cittadinanza. La creazione di questi “cittadinanza di serie B” ebbe termine sono dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quando fu approvata (aprile 1945) la cosiddetta legge Lamine Guèye, che estendeva la nazionalità francese a “tutti i cittadini e i cittadini delle metropoli e dei territori d’oltremare”, mentre nel 1947 l’Algeria veniva parificata al territorio della madrepatria. I movimenti indipendentisti che proliferarono all’indomani del conflitto in realtà si era già sviluppati in precedenza. Tra questi ricordiamo la Stella Nord-Africana (ENA, Etoile Nord-Africaine) nell’orbita del partito comunista francese (1925) e il Partito del Popolo Algerino (PPA), fondato nel 1937, che nel 1946 venne ribattezzato come Movimento per il Trionfo della Libertà e della Democrazia (MTLD), dotandosi anche di una struttura segreta. A partire dagli anni Cinquanta le organizzazioni indipendentiste si moltiplicarono, nonostante la repressione francese e il rifiuto di ogni apertura da parte del governo di Parigi. Nel 1954 fu fondato il Fronte di liberazione nazionale (FLN), ancora oggi il principale partito algerino, che aveva un proprio esercito chiamato Armata di Liberazione Nazionale (ALN), che scatenò un’azione fatta di terrorismo e guerriglia in tutto il paese; il fronte si dividerà al suo interno tra i fautori di un governo militare e coloro che preferivano un governo civile per la futura Algeria indipendente. Gli anni seguenti furono caratterizzati da scontri, attentati e arresti, mentre l’ONU (e Marocco e Tunisia, indipendenti dal 1956) cercavano di mediare in una situazione sempre più esplosiva. Agli inizi del 1957 Parigi decise di passare alla soluzione militare per reprimere le rivolte, attribuendo pieni poteri al capo del dipartimento militare di Algeri, generale Jacques Massu, che scatenò il 7 gennaio una dura azione repressiva (chiamata battaglia di Algeri) nel corso della quali furono catturati (e poi giustiziati) i capi della rivolta e si tentò di riprendere con la forza il pieno controllo della capitale; per quanto l’operazione sembrò decretare il successo francese, la resistenza era tutt’altro che vinta e proseguì sulle montagne; la cosa, però, più importante è che gli indipendentisti si erano conquistati definitivamente il favore dell’opinione pubblica internazionale. La situazione algerina, col timore di un tentativo di colpo di stato a Parigi appoggiato dai coloni, strenui oppositori dell’indipendenza algerina, spinsero il presidente della Repubblica René Coty a richiamare il generale Charles de Gaulle, eroe della resistenza nazionale durante la guerra mondiale, che si era ritirato dalla vita politica subito dopo la conclusione del conflitto. Fu lui a formare, dopo un periodo di interminabili crisi di governo, un nuovo esecutivo e a varare una nuova Costituzione, ispirata al modello presidenziale, che segnò la nascita della cosiddetta quinta repubblica: il 21 dicembre dello stesso anno De Gaulle divenne il nuovo capo dello Stato. Il 16 settembre 1959 De Gaulle riconobbe pubblicamente il diritto all’autodeterminazione del popolo algerino, dichiarazione che scatenò le dure proteste dei coloni di Algeri (le cosiddette giornate delle barricate, gennaio 1960), ma il presidente aveva l’appoggio delle forze armate e le proteste non ebbero seguito. Come risposta alla palese intenzione di De Gaulle di concedere l’indipendenza all’Algeria, i coloni decisero di dare vita nel dicembre 1960 all’Organizzazione dell’Armata Segreta (OAS), ma nel frattempo – 8 gennaio 1961 – si tenne un referendum popolare in patria, voluto dallo stesso De Gaulle, che si pronunciò a favore dell’indipendenza. Si avviarono così, nella città di Evian, i colloqui tra i delegati francesi e algerini, mentre l’OAS (poi entrato in clandestinità) avviò una serie di azioni terroristiche, tentando perfino (aprile 1961) un colpo di stato, sventando da De Gaulle. Il 19 marzo 1962 sempre ad Evian, furono firmati gli accordi che mettevano fine al conflitto, prevedendo un cessate-il-fuoco e riconoscendo il FLN. L’OAS perse via via seguito e già a maggio centomila coloni lasciarono l’Algeria. A giugno l’OAS deponeva le armi, mentre il primo luglio un nuovo referendum popolare sanciva l’indipendenza algerina, proclamata ufficiale il tre dello stesso mese. Il nuovo stato sovrano dovette affrontare parecchi problemi, a cominciare dalle divisioni interne al fronte indipendentista tra il governo provvisorio (GPRA) firmatario degli accordi di Evian e le fazioni più ispirate a un modello politico di tipo autoritario e militarista, guidata da Houari Boumedienne e da Ahmed Ben Bella, primo capo del governo della nuova Algeria, che l’anno dopo divenne il primo presidente della Repubblica (con Boumedienne suo vice e ministro della Difesa). Ben Bella avviò una serie di riforme economiche ispirate al modello sovietico, mentre il regime assumeva sempre di più tratti autoritari, col FLN divenuto nei fatti partito unico. Nel 1965, con un colpo di stato, Boumedienne spodestò Ben Bella, accusato di non essere abbastanza solerte nell’abbracciare un modello socialista. Le riforme varate dal nuovo governo, nei fatti guidato dai militari, previdero la nazionalizzazione dell’industria petrolifera e la riforma agraria e sanitaria. La nuova Costituzione del 1976 proclamava ufficialmente il paese stato socialista. Dopo la morte di Boumedienne (dicembre 1978), divenne presidente un altro militare, Chadli Bendjedid, di tendenze politiche più moderate, che ordinò, tra le altre cose, il rilascio di numerosi detenuti politici e permise all’ex presidente Ben Bella (già messo agli arresti e poi esiliato) di tornare in patria. Sull’onda delle proteste di piazza, il governo aprì a riforme democratiche, varando nel 1989 una nuova Costituzione che apriva al multipartitismo, rompendo il monopolio del FLN. Le prime elezioni libere, tenutesi nel 1990 per il rinnovo delle amministrazioni locali, segnarono il trionfo del partito integralista del Fronte Islamico di Salvezza (FIS), che nel 1991 si avviava a vincere anche le politiche con quasi la metà dei voti (il FLN prese poco più del 20 per cento) al primo turno: probabilmente il ballottaggio ne avrebbero segnato l’autentico trionfo. Tuttavia, il secondo turno non si tenne mai, perché l’11 gennaio 1992 i militari attuarono un golpe, costringendo il presidente Chadli alle dimissioni. La democrazia era durata pochissimo e il paese era nuovamente in mano a una dittatura militare, al vertice della quale c’era un Supremo Consiglio di Sicurezza e un Supremo Comitato di Stato, controllati dagli alti ufficiali. Le garanzie politiche e democratiche vennero cancellate e tutti gli oppositori (a cominciare dai capi del FIS, dichiarato fuori legge) perseguiti e incarcerati. La fazione islamica non si arrese al colpo di mano e diede vita ad una resistenza armata, formando il Movimento Islamico Armato (MIA) e il Gruppo Islamico Armato (GIA), che diedero vita a numerose azioni di guerriglia e attentati terroristici. Grazie anche alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio – già protagonista del processo di pace in Mozambico – nel 1995 venne siglato un accordo di pace tra tutte le formazioni politiche (FIS compreso), che condusse alle prime elezioni presidenziali libere (novembre 1995), vinte dal generale Liamine Zéroual, capo dello Stato dal 1994 e fautore del processo di riconciliazione; tuttavia, scontri e violenze nel paese continuarono sino al 1998 (con vari atti di terrorismo), a causa delle fratture all’interno della fazione islamista. Le parlamentari del 1997 videro la vittoria del partito militarista (Raggruppamento Nazionale Democratico), che formò un governo di coalizione con gli altri principali partiti, mentre a settembre 1997 le formazioni terroristico, divise al loro interno, proclamarono il cessate il fuoco. Per effetto delle dimissioni di Zéroual, nel 1999 si tennero nuove elezioni che decretarono l’ascesa di Abdelaziz Bouteflika, erede politico di Boumedienne destinato a restare al potere per un decennio, nonostante le accuse di brogli che avvolsero le consultazioni. Il primo gennaio 2000, per effetto di un’amnistia, la principale organizzazione islamista (AIS) si sciolse, mentre il più radicale GIA venne definitivamente sconfitto due anni dopo. Le successive consultazioni, nazionali e locali, hanno sempre finito per confermare gli assetti di potere, con gli islamisti ai margini della vita politica. Nonostante l’assetto formalmente pluralista, l’Algeria non può dirsi un paese democratico. Ci sono state negli anni varie manifestazioni per reclamare libertà e democrazia (come quelle nella regione della Cabilia del 2001), ma il governo non ha mai accolto le istanze, reagendo talvolta con estrema durezza. Ancora oggi, nonostante il ritiro di Bouteflika, dimessosi nel 2019 sull’onda delle proteste popolari e morto due anni dopo, il paese non ha raggiunto un assetto democratico e resta vittima di gravi ingiustizie e disparità sociali, acutizzate dalla crisi pandemica e dai provvedimenti eccezionali assunti in questa fase dal nuovo presidente Abdelmadjid Tebboune.
di Paolo Arigotti