Kaliningrad, Konigsberg fino al 1946, è una città russa di circa 482mila abitanti, capoluogo dell’omonimo oblast (una sorta di regione), con una superficie complessiva di circa 15mila kmq e 900mila abitanti. Situata sulla foce del fiume navigabile Pregel, che sfocia nella laguna della Vistola e quindi nel Mar Baltico, rappresenta il territorio più occidentale della Federazione russa, divenuta exclave – termine che indica il territorio di un paese sovrano, circondato da altri stati – a partire dal 1991, quando per effetto della dichiarazione d’indipendenza delle tre repubbliche baltiche e pochi mesi prima della dissoluzione dell’URSS, si trovò inserita tra Polonia e Lituania. Kaliningrad è uno dei più importanti porti del mar Baltico, sede della flotta russa dal 1952 (tanto che in epoca sovietica l’accesso agli stranieri fu a lungo interdetto) e viene considerato il centro di molti traffici illeciti, come il contrabbando di merci, circa il quale “compete” col porto lituano di Klaipeda. Assieme alla vicina Baltijsk (ex Pillau), è uno dei soli due porti russi sul Baltico, l’unico ad affacciarsi sul continente europeo; il fatto che le acque non ghiaccino mai li rende entrambi strategici, consentendo la navigabilità per tutto il corso dell’anno. Accennavamo al fatto che fino al 1946 il nome della città era Konigsberg (letteralmente Monte del Re), che tradiva la chiara origine tedesca; il centro urbano era famoso, tra le altre cose, per aver dato i natali al filosofo Immanuel Kant, che è sepolto nei pressi della cattedrale cittadina. Fondata nel XIII secolo, sui resti di alcune fortificazioni militari, faceva parte della regione della Prussia orientale, divenendone col tempo uno dei centri più importanti. Fu capitale dello Stato monastico dei cavalieri teutonici dal 1454, quindi del Ducato di Prussia fino al 1773; entrò, successivamente, a far parte dell’Impero tedesco, della repubblica di Weimar e del terzo Reich, appartenendo politicamente alla Germania sino al termine del secondo conflitto mondiale. Nel corso della guerra, la città – divenuto uno dei principali bastioni difensivi per frenare l’avanzata delle forze sovietiche – subì pesanti bombardamenti britannici (1944), seguiti dal lungo assedio dell’Armata rossa nella fase finale del conflitto, culminato con la resa delle forze tedesche, che segnò la conquista definitiva della città. Gli accordi siglati tra gli alleati in occasione della Conferenza di Potsdam (1945) formalizzarono l’annessione dell’antica Konigsberg all’URSS: precisamente venne inglobata nell’allora repubblica socialista federativa sovietica di Russia. I sovietici si assicurarono, così, il controllo di un territorio importantissimo per ragioni strategiche e militari, basti considerare che durante la guerra fredda vi furono schierate ingenti forze militari e circa 500mila uomini. Con l’obiettivo di russificarla rapidamente, le venne imposto, il 4 luglio 1946, l’attuale nome, scelto in onore di Michail Ivanovic Kalinin, rivoluzionario e stretto collaboratore di Stalin, nonché presidente del Presidium Soviet supremo (in pratica il capo dello Stato sovietico) per circa otto anni. Si voleva, così, celebrarne la recente scomparsa (era morto di cancro il 3 giugno), nonostante il leader sovietico non avesse alcun legame con la città. I cittadini tedeschi (circa 300mila persone) sopravvissuti alla guerra furono espulsi tra il 1946 e il 1949, sostituiti con quelli sovietici: si stima che circa 200 mila cittadini dell’URSS vi si trasferirono, più o meno volontariamente, negli anni successivi al conflitto; allo stesso modo, fu imposto l’uso esclusivo della lingua russa in luogo di quella germanica. La città, devastata dai bombardamenti, venne ricostruita con edifici moderni in stile sovietico, mentre molti di quelli storici – compreso il castello teutonico, demolito nel 1968 per lasciare spazio alla mai finita casa dei soviet – rimasero in stato di abbandono; tra i monumenti che sopravvivono ricordiamo la Cattedrale del Cristo Salvatore (2005) e le Porte di Konigsberg. A riprova dell’avvenuta russificazione della città, nel 2015, in occasione del settantesimo anniversario dalla fine della Seconda guerra mondiale, il patriarca ortodosso Kirill ribadiva che la regione di Kaliningrad è terra russa e che appartiene di diritto al suo popolo. Nel 1957 fu siglato un accordo tra Polonia e Unione Sovietica per la delimitazione dei rispettivi confini. La fine dell’URSS e la progressiva espansione della NATO (e della UE) verso est, con l’adesione di molti paesi dell’ex sfera sovietica – tra i quali Polonia e Lituania – hanno prodotto geopoliticamente la situazione attuale: l’oblast di Kaliningrad si trova “circondato” da stati membri del Patto atlantico e della UE, per il cui tramite avvengono – via terra – l’accesso e i collegamenti con la madrepatria: ai cittadini russi in transito è richiesto di esibire un visto. La fine dell’URSS segnò per l’oblast un momento critico, durante il quale si registrò un picco di disoccupazione e di contagi da HIV, spingendo Mosca a varare una serie di incentivi e misure fiscali per risollevare le sorti socioeconomiche dell’exclave (tra l’altro venne istituita una zona economica speciale). Nell’evoluzione delle relazioni politiche e militari con l’Occidente, il ruolo dell’oblast – specie nel nuovo millennio – si è rivelato sempre più strategico nel quadro di un confronto a distanza sempre più accesso tra le due superpotenze nucleari, USA e Russia; un segnalo arrivò nel 2007, quando l’allora vicepremier di Mosca, Sergej Borisovic Ivanov, ammonì che se la NATO (per meglio dire, gli Stati Uniti) avessero piazzato installazioni missilistiche difensive in Polonia, la Russia avrebbe reagito insediando armi nucleari a Kaliningrad. Ambedue le iniziative non ebbero seguito, ma questo non frenò i successivi sviluppi. A partire dal 2012, difatti, la Russia installò nell’exclave sistemi antimissilistici a lungo raggio S-400, nel 2016 il sistema missilistico Iskander, in grado di trasportare testate nucleari e di colpire le nazioni europee; diversi analisti sostengono che Mosca conserverebbe nella regione perfino armi nucleari. Se negli anni Novanta del secolo scorso nella regione di Kaliningrad, anche per via della grave crisi economica che aveva colpito la Russia, si era assistito a una consistente riduzione degli armamenti (per esempio la flotta di sottomarini passò da una trentina a pochi mezzi), al contrario, sempre nel corso del secondo decennio del nuovo secolo, assistiamo ad una significativa rimilitarizzazione dell’exclave; allo stesso tempo, presero avvio nel Baltico una serie di esercitazioni tanto NATO, quanto russe, in questo secondo caso in collaborazione con la Cina: se Mosca organizzava Zapad-2017 tra Kaliningrad e il territorio bielorusso, sempre nel 2017 Polonia e paesi baltici rispondevano con l’esercitazione Sabre Strike e Baltops, mentre truppe del Patto Atlantico si addestravano nella difesa del cosiddetto corridoio di Suwałki, del quale parleremo a breve, ancora oggi considerato uno dei luoghi più pericolosi dei continente europeo. Per alleggerire per un attimo la cronaca degli eventi, ricorderemo che, sempre nel 2017, la città russa si è gemellata con Catania, creando collegamenti aerei diretti tra le due città per favorire l’afflusso dei turisti russi in terra di Sicilia. Venendo ai giorni nostri, sappiamo delle nuove tensioni nell’area, scaturite dalla decisione del governo lituano di imporre severe restrizioni alla mobilità – inquadrate nella cornice delle sanzioni comminate alla Russia dopo l’attacco all’Ucraina – bloccando il transito ferroviario e stradale sul proprio territorio di una serie di merci (incluse nel pacchetto delle famose sanzioni), minacciando entro la fine dell’anno di fare altrettanto con le forniture di idrocarburi. Si sono aperti, così, nuovi e potenzialmente esplosivi scenari. Mosca ha reagito con durezza alla decisione del governo lituano, che secondo i russi finirebbe per paralizzare circa la metà dell’import dell’oblast (la restante parte viaggia per via aerea o marittima (con mezzi, però, molto più onerosi); secondo la federazione, tra i prodotti interessati dal blocco figurerebbero quelli siderurgici o beni come caviale, alcool, fertilizzanti, legnami, vetro e legno. Konstantin Kosachev, vicepresidente del Consiglio della Federazione russa, la camera alta del Parlamento di Mosca, ha accusato le autorità di Vilnius di aver violato una serie di accordi internazionali, non esclusa la convenzione ONU sul diritto del mare, unitamente ai trattati sottoscritti con la UE e quelli commerciali e di transito siglati dopo la fine dell’URSS. A stretto giro è arrivata la replica del primo ministro lituano, Ingrida Simonyte, secondo cui: “è ironico sentir parlare di violazione di trattati internazionali da un paese che ha violato ogni singolo trattato internazionale”. Molto critico verso il governo lituano l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, che al di là del fatto che la decisione sia stata presa in autonomia o concordata con gli alleati, ne sottolinea l’illegittimità sotto il profilo del diritto internazionale; un’altra obiezione che verrebbe da sollevare riguarda il collegamento tra la decisione e le sanzioni: se la motivazione fosse quest’ultima, perché mai analoghe misure non sono state adottate anche dal governo polacco? Non è un mistero per nessuno che la rilevanza strategica dell’oblast si sia accresciuta dopo l’annuncio dell’adesione alla Nato di Svezia e Finlandia – Turchia permettendo – che chiuderebbe il cerchio del baltico attorno a Mosca e alla stessa Kaliningrad. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zacharova, ha detto che la risposta a Vilnius sarà pratica, non diplomatica: a questo punto è lecito interrogarsi sulle contromisure di Mosca. Tra le ipotesi che circolano, ci sarebbe il taglio dell’energia ai lituani, visto che il paese, per quanto abbia più volte dichiarato di volerne uscire, è ancora vincolato all’anello energetico BRELL, che unisce Bielorussia, Russia, Estonia, Lettonia e, appunto, Lituania; si parla anche di ritorsioni di ordine economico e politico, compresa la revoca del riconoscimento dell’indipendenza di Vilnius, assumendo come illegittime le decisioni a suo tempo adottate dai governi di Mosca. In realtà, però, a destare le maggiori preoccupazioni sarebbe l’eventuale la decisione del Cremlino di passare alle vie di fatto per rompere l’isolamento dell’oblast, aprendo con la forza il cosiddetto “corridoio Suwalki”, un passaggio via terra tra Lituania e Polonia, lungo circa 100 km e largo 35, che consentirebbe di collegare direttamente il territorio di Kaliningrad con la Bielorussia, fedele alleato di Mosca; questa soluzione, secondo l’analista del Financial Times Wolfgang Munchaulo, esporrebbe a ulteriori pericoli anche la Polonia e gli stati baltici. Il ricorso alla forza, al pari di qualunque altra reazione di tipo militare, potrebbe causare uno scontro diretto con la NATO. Polonia e Lituania, difatti, sono membri del Patto Atlantico e un’eventuale aggressione nei loro confronti farebbe scattare l’art. 5 del trattato, che prevede che: “un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza”; in altre parole, sarebbe la guerra tra NATO e Russia, conflitto dalle conseguenza imprevedibili, col pericolo di una serie di escalation militari. Diversi osservatori hanno escluso questa opzione – tra questi Antonio De Martini – assumendo come la Russia sia pienamente consapevole della sua inferiorità militare rispetto agli avversari; ciò non toglie, però, che la semplice esistenza del rischio sia di per sé molto preoccupante, come lo sarebbe l’eventuale impiego di armi atomiche tattiche. L’Alto Rappresentante dell’Ue Josep Borrell, di fatto il ministro degli esteri dell’Unione, si è detto: “… preoccupato dalle rappresaglie russe, ma siamo fattuali: il transito terrestre tra Kaliningrad e altre parti della Russia non è stato fermato”; in una dichiarazione di poche ore fa, ripresa dall’ADN Kronos, lo stesso Borrell ribadiva che “A Kaliningrad non c’è un blocco. La Lituania sta applicando le linee guida della Commissione sulle sanzioni. Ma il SEAE (Servizio Europeo per l’Azione Esterna) rivedrà le linee guida per chiarire che non vogliamo bloccare o impedire il traffico tra Kaliningrad e la Russia, ma solo impedire aggiramenti delle sanzioni. Entrambe le cose dovrebbero essere possibili e ci stiamo lavorando. Non c’è un blocco, ma controlli su alcune merci, che vanno svolti in modo intelligente, senza bloccare il traffico”. Allo stesso tempo il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov ha detto alla TASS: “Non vogliamo escludere nulla. Vogliamo augurarci il meglio e prepararci al peggio. E questo è esattamente ciò che stiamo facendo ora”. Per parte sua, il portavoce della Commissione UE, Eric Mamer, ha dichiarato che i controlli e blocchi imposti da Vilnius “… sono mirati, proporzionati ed efficaci. Si baseranno su una gestione intelligente del rischio, per evitare l’elusione delle sanzioni pur consentendo il libero transito. Siamo in stretto contatto con le autorità lituane e forniremo ulteriori indicazioni man mano che procediamo”, garantendo che l’afflusso dei beni essenziali, come il transito delle persone, non subirà interruzioni. La Lituania, secondo questa lettura, non avrebbe adottato alcuna restrizione unilaterale nazionale, limitandosi ad applicare le sanzioni decise in sede UE, ma – riproponendo la stessa obiezione già fatta in precedenza – allora perché non avrebbe fatto lo stesso anche la Polonia? Queste dichiarazioni, per la verità, non si rivelano molto rassicuranti. Nel frattempo, le tensioni si accrescono, al pari della presenza della NATO in territorio lituano, dove si sono recentemente aggiunti 350 soldati ai 500 tedeschi già dislocati; aggiungiamo che importanti esercitazioni sono in corso in Estonia. Quasi contemporaneamente la Norvegia ha ammassato truppe ai confini con la Russia e il governo estone ha accusato Mosca di violazione delle frontiere con velivoli e simulazioni di attacchi missilistici. Del resto, nei mesi scorsi un’altra nazione dell’area storicamente ostile alle Russia, la Polonia, aveva contribuito a gettare benzina sul fuoco, con le dichiarazioni bellicose di Waldemar Skzypczak, generale polacco ed ex comandante delle forze di terra, che ha parlato di Kaliningrad come di un territorio sotto occupazione russa, sul quale la Polonia dovrebbe “rivendicare i suoi diritti”. Tralasciando il capitolo della fondatezza di simili affermazioni, è chiaro che esse non aiutano a far scemare le tensioni. Lo stesso potrebbe dirsi per le parole di Aleksey Zhuravlyov, il presidente del partito nazionalista russo Rodina e membro della Duma di stato, che parlando a maggio scorso in una trasmissione della televisione di stato, aveva detto che il nuovo missile “Sarmat”, lanciato proprio da Kaliningrad, sarebbe in grado di coprire per colpire in pochi minuti le principali capitali europee – come Londra, Parigi o Londra -, distruggendole, senza che le difese europee o americane potessero fare nulla per arrestarle; si tratta di toni a dir poco deliranti (e/o propagandistici), che il ministro degli esteri russo Serghei Lavrov, in un’intervista esclusiva su Rete4, si è affrettato a smentire, ribadendo che da parte russa non esiste nessuna intenzione di scatenare un conflitto armato con l’Occidente, men che mai nucleare. Va ricordato, però, che in uno studio strategico realizzato in seno alla NATO, intitolato “Come proteggere i paesi baltici” da un aggressione russa, ripreso dall’Anti Diplomatico nell’ottobre 2019, si parlava – tra le altre cose – di un piano per distruggere il sistema di difesa aerea di Kaliningrad; di fronte a una simile prospettiva, non si era fatta attendere la replica piccata dei russi, che per bocca del governatore dell’oblast di Kaliningrad, Anton Alijanov, aveva consigliato ai militari statunitensi di “imparare dalla storia” e documentarsi sulla fine fatta dai paesi che avevano messo in atto piani di aggressione contro la Russia. Scriveva Manlio Dinucci, uno dei nomi finiti al centro di un noto e contestato articolo di stampa di recente pubblicazione, in un pezzo pubblicato a novembre 2021 sul quotidiano Il Manifesto: “Quando aerei russi volano nello spazio aereo internazionale sul Baltico, in genere diretti all’exclave russa di Kaliningrad, i caccia italiani ricevono dal comando Nato l’ordine di decollo immediato su allarme e in pochi minuti li intercettano. Scopo ufficiale di tale operazione è “preservare lo spazio aereo alleato”. Scopo reale è far apparire la Russia come una potenza minacciosa che si prepara ad attaccare l’Europa. Si alimenta così un crescente clima di tensione: gli F-35A e gli Eurofighter Typhoon, schierati a pochi minuti di volo dal territorio russo, sono caccia a duplice capacità convenzionale e nucleare. Che cosa avverrebbe se analoghi caccia russi fossero schierati ai confini con gli Stati Uniti?”, aggiungendo che parliamo di “… un grande gioco strategico sempre più pericoloso.” In queste ore c’è stata la visita a Kaliningrad di Nikolaj Patrušev, segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, vicinissimo a Putin, considerato uno dei “falchi” del regime: ulteriore segnale poco rassicurante. Le tensioni storiche tra Russia e Lituania – vuoi per l’invasione del 1939, che per il tentativo di contrastare l’indipendenza nel 1991 – sono molto radicate tra i popoli baltici, non a caso Vilnius è stata in prima fila per sostenere l’Ucraina, temendo di potersi trasformare in una delle prossime “vittime” del presunto espansionismo di Mosca, ma da sole non sarebbero sufficienti a giustificare una decisione che – sia pur (per fortuna) ipoteticamente – potrebbe trascinare il mondo in un conflitto nucleare. Sminuire la gravità dei fatti, però, non si dimostra sempre una buona strategia. Sarebbe utile, a tal proposito, ricordare che, per i contemporanei episodi come l’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo (28 giugno 1914) o l’aggressione nazista alla Polonia (1^ settembre 1939) non avrebbero dovuto o potuto trascinare il mondo in un conflitto di portata mondiale. E teniamo presente che all’epoca le armi nucleari non esistevano. Affermando questo non vogliamo assolutamente mettere in discussione fatti o responsabilità storiche, ma semplicemente evidenziare come non sempre le conseguenze di certe azioni siano adeguatamente valutate e/o del tutto prevedibili. Possiamo solo limitarci ad auspicare che a nessuno venga in mente di provocare la fine del mondo, o, volendo essere ottimisti, di una sua buona parte, per quanto dovremmo aver appreso che fatti ed eventi non sempre seguono la logica e il buon senso. Come scriveva Antonio Gramsci (1921): “L’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari”.
di Paolo Arigotti