Le pensioni sono state agganciate, in modo automatico, all’aspettativa di vita (80,3 anni per gli uomini; 85,3 per le donne, nel 2015), uguale per tutti, senza alcuna distinzione delle diverse condizioni di lavoro, di vita e di ambiti territoriali dei lavoratori e creato per ridurre costantemente e periodicamente le uscite di bilancio e cioè l’importo dei trattamenti previdenziali (Legge 122/2010 e Legge 214/2011, cosiddetta Riforma Fornero).
La conseguenza di questo inesorabile e ingiusto meccanismo legislativo è la seguente: più si vive, meno si guadagna e più le pensioni si allontanano.
Le pensioni saranno sempre più lontane nella decorrenza: l’età pensionabile per la pensione di vecchiaia e l’anzianità contributiva per quella anticipata (l’aggancio alla speranza di vita di quest’ultimo requisito è stato disposto dalla riforma Fornero) aumentano in relazione al prevedibile incremento dell’aspettativa di vita.
Nel 2013 di tre mesi; nel 2016 di quattro mesi; nel 2019 ogni due anni; nel 2050 è previsto il collocamento a riposo a 70 anni o con un’anzianità contributiva di 46 anni di lavoro.
Le pensioni saranno sempre più povere nell’importo: la percentuale dei coefficienti, che trasforma il montante contributivo in pensione, diminuisce in ragione del maggior periodo di godimento del trattamento previdenziale da parte del pensionato, perché vive più a lungo. Tale perverso meccanismo provocherà diversi trattamenti tra due lavoratori, in pensione in epoca diversa, ma con la stessa età pensionabile, anzianità contributiva e montante contributivo (nel 2013, il coefficiente a 66 anni è pari a 5,624%; nel 2016, è sceso a 5,506%).
Nel corso degli anni, in conseguenza del periodico automatico adeguamento (riduzione) dei coefficienti di trasformazione, la diminuzione dell’importo pensionistico si aggirerà, secondo le previsioni Istat, intorno al 20% nel 2038 e di un ulteriore 20% nel 2058.
Insomma una vera e propria emergenza che sta rubando il futuro previdenziale ai nostri figli e nipoti.
LA PROPOSTA CISAL DI MODIFICA
Si propone che i coefficienti di trasformazione:
vengano modificati ogni 10 anni, com’era già previsto dalla riforma Dini, periodo che rappresenta un tempo congruo per sedimentare i processi instabili, legati all’attesa di vita;
che non siano collegati in modo automatico, ma che tengano conto della diversa incidenza delle attività professionali e delle condizioni di vita e di residenza territoriale dei lavoratori;
possano essere ridotti fino al limite minimo per conseguire almeno un tasso di sostituzione della pensione non inferiore al 60% della retribuzione media, al fine di scongiurare importi al di sotto del minimo vitale.