Nella pubblica amministrazione, lo smart working è stato considerato la normale modalità operativa di lavoro, almeno fino al 15 settembre. Ma poi?
Oggi nessuno ha ben chiaro uno scenario certo riguardo a quella che noi consideravamo, almeno fino a qualche mese fa, la “normale” attività lavorativa: tutti però ritengono che sia improponibile (per molte ragioni) un ritorno alle preesistenti modalità.
Esistono naturalmente varie motivazioni che impongono una seria e puntuale regolamentazione dello smart working, anche perché la situazione emergenziale che ancora stiamo vivendo ha un poco ingarbugliato prassi e norme, procedure e riferimenti normativi.
Se volessimo essere precisi abbiamo avuto l’introduzione da DPCM di un lavoro digitale domiciliare coatto, visto che nell’emergenza si sono mescolate le normative, relative a diverse fattispecie di lavoro a distanza (telelavoro e smart working) utilizzando le dotazioni informatiche (a volte personali, a volte fornite dalle amministrazioni), ignorando forzosamente tutte le norme riguardo alla sicurezza sulla postazione (fisiche, ergonomiche ed alla sicurezza della locazione fisica e dell’impianto elettrico).
Essere fisicamente costretti al lavoro da casa ha generato una serie di problematiche, che hanno bisogno di essere esaminate e ricondotte ad una auspicata nuova normalità.
Tra i molti aspetti, ne vogliamo sottolineare almeno due.
Le pubbliche amministrazioni, che hanno una struttura informatica adeguata ed un sistema di misurazione delle performance individuali e collettive, cioè che sono in grado di programmare obiettivi lavorativi raggiungibili anche da remoto, nella situazione di emergenza hanno trasformato questo lavoro digitale domiciliare coatto in un vero e proprio cottimo digitale.
Per croniche e nuove difficoltà sulle linee e sull’agibilità dei programmi, a fronte di obiettivi oggettivamente pressanti (per esempio in Inps con la Cassa Integrazione ed i vari bonus collegati ai DPCM) gli orari cui i lavoratori si sono sottoposti (volontariamente e per spirito di servizio) spaziavano dalle primissime ore del mattino fino a tarda notte, per poter “produrre” i risultati attesi.
Gli stessi Dirigenti non facevano mai mancare sollecitazioni ed indicazioni operative h 24: sebbene comprensibilmente tutto sia stato fatto senza risparmiarsi in una situazione critica per l’intero Paese. In un’ottica di un graduale ritorno alla normalità dovranno essere regolamentate diversamente (mediante apposita contrattazione) sia le fasce di lavoro ordinarie sia l’istituto della reperibilità d’ufficio, a salvaguardia della indispensabile (e sbandierata ai quattro venti) qualità della vita dei lavoratori, nonché a maggiore garanzia della qualità del prodotto lavorato verso il cittadino.
Piccola nota aggiuntiva: a valle del lockdown qualche pubblica amministrazione ha tentato di non corrispondere l’erogazione dei buoni pasto al personale in servizio da remoto, in quanto la riteneva non precisamente individuata da norma contrattuale.
C’è voluto un forte impegno e vigilanza delle Organizzazioni Sindacali, affinché alcune miopi PA recedessero da questa posizione, con altre Amministrazioni sempre pronte ad approfittarne.
Un’altra casistica da tenere bene a mente è questa: una condizione lavorativa coatta da remoto deve considerare, comunque, la possibilità di infortuni lavorativi.
Per il futuro smart working questo aspetto dovrà essere preso in adeguata considerazione. L’ambiente domestico, secondo diverse statistiche, è un luogo che merita un’attenzione speciale per la prevenzione degli infortuni, spesso di piccola entità, ma non sempre. Immaginiamoci questa “normalità” sommata ad un preciso e continuativo impegno lavorativo.
Anche in questo periodo emergenziale ci risultano degli infortuni occorsi in costanza di telelavoro domiciliare, ma coperti sotto la generica fattispecie della comune malattia.
A parte la considerazione che non sarebbe giusto né corretto espungere la possibilità dell’infortunio solo per una presunta agevolazione della localizzazione dell’impegno lavorativo, possiamo solo immaginare quali e quanti problemi sarebbero prontamente evidenziati dagli organi competenti, in caso di denuncia di infortunio lavorativo e di quanto ne consegue per legge.
La postazione era a norma? L’impianto elettrico era certificato? Gli spazi erano idonei?
L‘abitabilità della residenza era in regola? A che ora di preciso è successo? Etc etc.
Tremiamo solo all’idea di far riconoscere un sacrosanto diritto specifico alla salute, se questo particolare aspetto non fosse oggetto di attenta valutazione ed adeguatamente normato.
Non vi è dubbio che grandi sforzi sono stati fatti da tutti (Governo, Pubbliche Amministrazioni, Lavoratori) per fronteggiare al meglio, durante la fase acuta della pandemia le esigenze dei cittadini, è altrettanto vero che l’emergenza che abbiamo vissuto come paese ha in un qualche modo accelerato alcuni processi, che solo lentamente e con grande sforzo si stavano affermando, mentre in altre parti del mondo realtà lavorative, come lo smart working erano già da tempo molto più sviluppate.
Si sta facendo strada la convinzione che queste nuove modalità lavorative, forzatamente introdotte, siano più una risorsa che un limite e, con l’occhio alla produzione, si sta pensando di considerare il lavoro da remoto come una modalità ordinaria, se non privilegiata, di lavoro.
Un processo di innovazione che deve essere gestito e guidato, non subìto.
Una grande responsabilità, ma anche un’importante occasione per i lavoratori e per chi li rappresenta.
di Paolo Calì