A seguito dell’invasione russa dello scorso 24 febbraio, l’Ucraina – come noto – ha beneficiato di consistenti aiuti militari da parte dell’Occidente (Italia compresa), stimati in decine di miliardi di dollari americani.
Ad avviso di molti analisti e osservatori, esperti in geopolitica e strategia militare, è stato solo grazie a questi aiuti – associati al supporto dei servizi di intelligence – che il paese è stato in grado non solo di difendersi, ma di arrestare l’avanzata russa e l’ipotizzato disegno politico di Mosca di provocare un regime change a Kiev, sostituendo il governo del presidente Volodymyr Zelensky con uno filorusso. Nella fase attuale, i combattimenti si concentrano soprattutto nelle regioni russofone del Donbass (Ucraina orientale), dove insistono le due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, riconosciute da Mosca poco prima dell’attacco. L’invio di armi, ammesso che abbia potuto scongiurare lo scenario di un’occupazione integrale russa e/o la perdita dell’indipendenza della nazione ucraina, si presta tuttavia a numerose riserve e obiezioni, mosse da più parti. Occorre partire da una doverosa e indispensabile premessa: l’Ucraina è uno dei paesi più corrotti del pianeta, e questo ben prima dello scoppio del conflitto. Secondo Transparency International, nel 2021 il paese conseguiva appena 32 punti sui 100 disponibili riguardo all’indice di percezione della corruzione, collocandosi al 122esimo posto su 180 stati presi in esame (per la cronaca la Russia era 136esima). Tra i fattori più penalizzanti la diffusa corruzione, lo sperpero di finanziamenti del FMI (parliamo di miliardi di dollari), il mercato nero delle armi. Proprio quest’ultimo elemento – al centro di un recente articolo del Washington Post – è quello che desta le maggiori preoccupazioni: lo stesso governo statunitense – nonostante le garanzie offerte dal Dipartimento di Stato – non sarebbe attualmente in grado di fornire assicurazioni circa il fatto che gli armamenti inviati a Kiev vengano realmente utilizzati per contrastare l’invasione, e non – piuttosto – per alimentare il fiorente mercato clandestino interno e internazionale. A questo punto, chi potrebbe mai garantire che le risorse militari non siano vendute ad attori stranieri, magari a qualche cosiddetto “stato canaglia” e/o ad organizzazioni terroristiche nemiche dell’Occidente, come i Foreign fighters siriani, ceceni o i miliziani del gruppo Wagner. Pensiamo solo all’utilizzo potenziale, ad opera di gruppi terroristici, dei missili Stinger a spalla, perfettamente in grado di abbattere velivoli civili. E questo senza considerare che, a prescindere dall’arrivo degli armamenti occidentali, i combattenti presenti nel suolo ucraino hanno potuto beneficiare dell’importante contingente di risorse ex sovietiche (e delle industrie belliche risalenti a tale periodo), rimaste nel paese dopo la dissoluzione dell’URSS, che già a partire dagli anni Novanta furono vendute – spesso clandestinamente ad opere di organizzazioni criminali – ad attori impegnati in vari conflitti sparsi per il mondo. In sostanza, come testimoniano questi ultimi fatti, l’assenza e/o l’impossibilità di controlli sulla corretta allocazione delle risorse rischia di trasformarsi in un autentico boomerang per l’Occidente, specie (ma non solo) dopo la conclusione del conflitto. La domanda, a questo punto, può essere una sola: sarebbe possibile mettere in atto misure strategiche per operare simili verifiche e scongiurare ogni margine di rischio? Visti i presupposti e i precedenti, una risposta positiva sarebbe quantomeno azzardata.
di Paolo Arigotti