La legge n. 92 del 30 marzo 2004 ha istituito la giornata dedicata al ricordo delle vittime delle foibe e degli esodati della regione giuliano-dalmata, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale.
In realtà, per quanto la pubblicistica si sia dedicata prevalentemente alle vicende dei nostri connazionali del 1945, non va dimenticato che già nei mesi di settembre e ottobre del 1943 si consumò, specialmente nelle aree rurali, una spirale di violenze che colpì – a seguito della caduta del Fascismo e dell’armistizio dell’8 settembre – non soltanto gli italiani, ma più in generale tutti coloro che avevano collaborato con il Regime, giudicati “complici” dell’invasore. Ad esserne investiti non furono soltanto militari o gerarchi, ma pure semplici funzionari pubblici, come membri delle forze dell’ordine, impiegati ed insegnanti, assieme a proprietari terrieri e latifondisti.
Non si trattò di una “violenza di Stato”, quanto piuttosto di un moto di ribellione spontaneo contro la passata occupazione, dove il comune cittadino italiano (in quanto tale) era identificato con l’oppressore. Non va dimenticato – e purtroppo in Italia di questo non si parla mai – che nella provincia di Lubiana, occupata nei primi anni di guerra, furono creati dagli italiani dei veri e propri campi di concentramento, dove furono internate le popolazioni locali contrarie all’occupante, ritenute un ostacolo all’asservimento di quei territori.
Va detto, come si accennava, che non furono colpiti solo gli italiani, ma anche sloveni e croati “collaborazionisti”: per questa ragione non può parlarsi propriamente di una violenza su base etnica. In questo contesto, si verificarono i primi infoibamenti, che coinvolsero circa la metà delle vittime (stimate in cinquecento) della prima ondata di eccidi. Le foibe, cavità di origine carsica, già in precedenza era state utilizzate come strumento per occultare cadaveri (per esempio dei militari morti in guerra), e rappresentarono il mezzo per celare più facilmente l’accaduto prima dell’arrivo dei tedeschi.
Alla fine della guerra, la regione della Venezia Giulia e dell’Istria (con una particolare attenzione per la città di Trieste, a causa della sua valenza strategica ed economica, oltre che simbolica) era contesa tra la Iugoslavia di Tito e gli alleati occidentali: ambedue le parti cercarono di occupare per prime la zona, per mettere l’alleato-avversario di fronte al fatto compiuto. In questo scenario si colloca un nuovo ed ampio ricorso alla violenza, che stavolta avrebbe colpito i centri urbani – Trieste e Gorizia soprattutto – con l’obiettivo di eliminare e/o indurre alla fuga tutti coloro che si opponevano all’annessione alla Iugoslavia. Questo spiega per quale ragione, come già nel 1943, le vittime non furono soltanto italiane, ma anche di nazionalità slovena e croata, includendo tutti coloro che si opponevano al disegno politico di Belgrado, compresi quelli che non si professavano convintamente comunisti di fede titina (ad essere eliminati sarebbero stati diversi partigiani antifascisti non marxisti).
Emerge da quanto detto che non si può parlare né per il 1943, né per il 1945 di una pulizia etnica, visto che le motivazioni alla base non erano l’eliminazione di una certa nazionalità (le vittime, come visto, erano sia italiane che slave), bensì una vendetta contro l’oppressore (1943) o il perseguimento dell’obiettivo politico di conquista territoriale, che passava attraverso l’eliminazione del nemico di turno.
Le vittime del 1945 sono usualmente stimate in 4 o 5mila persone, ma anche in tal caso non tutti furono infoibati. Resta difficile fare un bilancio preciso, perché in tanti perirono per le vicende belliche e/o nei campi di concentramento iugoslavi, senza contare le vittime (sia nel ‘43 che nel ‘45) di vendette personali o atti criminali di altro genere. Quel che accomuna le due ondate di violenza criminale è che le Foibe non furono il mezzo per eliminare il nemico, bensì lo strumento per cancellare le prove dei delitti commessi.
A distanza di quasi ottant’anni, il dovere della memoria resta quanto mai attuale, anche perché per motivazioni politiche contingenti il silenzio calò per decenni sui fatti; va precisato – senza nulla togliere allo stigma per l’accaduto – che gli eventi descritti, usualmente definiti “Foibe”, non furono un genocidio o un’operazione di pulizia etnica, bensì una serie di atti criminali posti in essere per finalità di vendetta (1943) o ragioni politiche (1945), nell’ambito dei quali le cavità carsiche o vecchie miniere (come quella di Basovizza) servirono “solo” come mezzo per occultare i cadaveri delle vittime.
di Paolo Arigotti